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IL LIBRO

I treni dei bambini di ieri e di oggi

La toccante storia delle migliaia di bambini poveri del Sud Italia che, nell’immediato dopoguerra, sono partiti dalle loro case per essere accolti con generosità da famiglie del Nord: una bella storia, poco conosciuta. In un libro di Viola Ardone

Cultura 26_04_2022

In un tempo tragico e incerto come quello di oggi, in cui i nuovi rifugiati sono i piccoli ucraini fuggiti dalla guerra con le loro mamme, è davvero sorprendente e illuminante la lettura del romanzo di Viola Ardone Il treno dei bambini. Ci racconta una vicenda dei primi anni dopo il secondo conflitto mondiale, quando 70.000 bambini meridionali lasciarono la drammatica miseria delle loro abitazioni e vennero “adottati” per un certo periodo da famiglie di altre regioni italiane. Definito nei commenti dei critici tedeschi e francesi “un romanzo appassionante e scritto benissimo”, “un libro che tutti dovrebbero leggere”, è stato il caso editoriale della Fiera di Francoforte del 2019, per essere poi tradotto in ben 34 lingue.

In effetti Il treno dei bambini, opera di un’insegnante napoletana, descrive una storia che non si dimentica e colpisce al cuore. Per di più con uno stile efficacissimo: inizialmente lo sguardo e le parole, anche dialettali, piene di ironia, che aprono al riso e insieme alla riflessione, sono del protagonista Amerigo Speranza quand’era piccolo, uno scugnizzo cresciuto nei vicoli dei Quartieri Spagnoli di Napoli. Nell’ultima parte del romanzo, invece, Amerigo utilizza un italiano perfetto quando, ormai adulto, si rivolge con una lunga lettera d’addio ad Antonietta, la madre scomparsa, tentando di ricostruire il filo che lo lega a lei, malgrado i lunghi silenzi tra loro e i segreti che hanno coperto gli strappi del loro difficile rapporto. Un libro che scorre e tiene incollati alle pagine: ci sono un intreccio accattivante, sentimento e verità.

La storia inizia nel 1946. La guerra è finita, ma la miseria a Napoli è terribile. Si soffrono la fame e la povertà, manca tutto. Amerigo, figlio di Antonietta, con un padre lontano (forse in America, come suggerisce il nome del bambino?), è un ragazzino sveglio (soprannominato argutamente dai suoi vicini Nobèl), che vive e impara in mezzo alla strada, accudito con ruvido amore da una mamma sola, ignorante e spesso burbera, di poche parole: “il silenzio  è arte sua”, riconosce con acume il piccolo. Amerigo osserva e ascolta tutto ciò che gli accade attorno per comprendere come funziona il mondo. E la chiave sembrano essere le scarpe, quelle che gli fanno sempre male perché non sono mai nuove, adatte a lui: indossa solo quelle ereditate dagli altri. Ha proprio una passione per le scarpe: guarda infatti le persone a partire dai piedi e capisce se sono ricche o povere in base a quanto le calzature siano rovinate. La vita nei bassi è dura, misera e pericolosa, e la prima preoccupazione delle mamme è mettere qualcosa in tavola ogni giorno. Ma inaspettatamente si apre una prospettiva nuova, che esigerà  però un grande sacrificio.

L’idea dei “treni dei bambini” per portare i figli del Sud presso famiglie del Nord, in grado di ospitarli e sostenerli in tutto, almeno per un certo periodo, è del partito comunista. Dopo che i piccoli  saranno rifocillati, vestiti e confortati dall’affetto di chi sta meglio di loro, potranno tornare alle loro case avendo guadagnato un po’ di serenità. Insomma, una sorta di affido temporaneo per superare l’emergenza del dopoguerra. Immaginiamo il dramma di mamma Antonietta, che deve lasciare andare il figlioletto per assicurargli nell’immediato una vita più tranquilla, lontano dalla miseria più nera. Compie una dolorosa scelta d’amore, come tante altre madri di quel quartiere derelitto, fidandosi delle donne comuniste che hanno organizzato queste trasferte provvisorie per salvare  bambini condannati forse alla morte per fame, certamente a una vita di stenti. Così, anche se girano voci spaventose (ma siamo sicuri che non li mandino in Siberia?), le mamme non hanno altra scelta che far salire sui treni speciali i loro figli: i piccoli, da sempre abituati alla povertà, buttano alle madri dai finestrini i cappotti ricevuti in regalo per affrontare il grande freddo del Nord. Sanno che i loro fratelli rimangono a Napoli cercando di sopravvivere e ne avranno sicuramente bisogno più di loro. 

L’accoglienza a Modena per Amerigo, che pur sente la lacerante nostalgia della mamma, è calorosa e gli apre prospettive inattese. Scopre così di avere un talento musicale e gli verrà donato un violino. Abita con Derna, donna giovane e bella, che si mostra affettuosa con lui, ma lavora; perciò durante il giorno è ospitato dalla simpatica famiglia di sua cugina, i Benvenuti, che hanno tre ragazzi dai nomi ben strani, scelti per pura fede politica: Rivo, Luzio, Nario. È trattato come uno di loro, con grande generosità, incarnata dal capofamiglia Alcide, uomo buono e allegro, che riesce a far superare la gelosia ai suoi figli. I mesi passano, Amerigo va a scuola, gioca con i nuovi amici, mangia cibi mai visti, si veste con dignità e vede la possibilità di una vita diversa e piena. Ma arriva presto il tempo del ritorno a Napoli dalla mamma, che gli comunica subito che lì vivere è ancora difficile e bisogna rapidamente imparare un mestiere, perché i soldi mancano sempre. Ritorna l’esistenza di stenti; il ragazzo, di nuovo catapultato nei suoi squallidi vicoli, non può neppure suonare il violino che Alcide gli ha regalato quando ha riconosciuto il suo talento musicale. Sarà proprio il violino, insieme con i silenzi inspiegabili della mamma, a spingere Amerigo a ripartire per il Nord, questa volta da solo, alla ricerca di un futuro per sé, con l’aiuto di chi gli ha fatto intravedere una vera speranza.

Lo strappo dalle sue radici sembra definitivo, ma verrà misteriosamente ricomposto solo nel commovente finale. Amerigo tornerà da musicista affermato nella sua Napoli e riannoderà i fili della sua storia. Mamma Antonietta ha in realtà dimostrato tutto il suo amore lasciandolo andare e il figlio dovrà riconoscere che il taglio netto dalle proprie origini non l’ha portato alla piena verità di se stesso. L’amore di una madre per il figlio e di un figlio per la madre permangono in tutta la loro forza malgrado i silenzi, le censure o le apparenti ingiustizie. Grazie al libro della Ardone possiamo rileggere in modo più umano e autentico anche il dolore straziante delle tante mamme ucraine in fuga (ma il destino di sofferenza è anche delle madri russe), costrette dal dramma della guerra a lacerazioni terribili. Ci auguriamo che i bambini che abbiamo visto spauriti sui treni dei profughi di oggi possano ritrovare la speranza, che deve rimanere viva, proprio in un momento in cui sembra che si voglia cancellare la bellezza di vivere e costruire in pace e armonia.