I tanti piccoli Eichmann del pandemicamente corretto
Viene additato chi mostra scetticismo sulle misure anti-covid, altri sono puniti per un dissenso sul pensiero mainstream, continua la caccia all’untore con il naso fuori della mascherina. Siamo in balia di tanti piccoli Eichmann, cittadini modello che pensano ciò che devono pensare, obbediscono, colorano stando nelle righe “perché lo dice la legge”.
Otto Adolf Eichmann nacque in Renania nel 1906. Durante il Terzo Reich si occupò del trasporto degli ebrei nei vari campi di concentramento. Dopo la guerra fuggì in Argentina; lì fu riconosciuto e rapito dal Mossad. Trasferito in Israele, venne processato nel 1961 a Gerusalemme. Il processo Eichmann avrebbe dovuto essere esemplare e spettacolare; a questo fine vennero invitati giornalisti da tutto il mondo. Il settimanale New Yorker inviò l’intellettuale ebrea Hannah Arendt che pubblicò la raccolta dei suoi resoconti con il titolo (italiano) di La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme (Feltrinelli, Milano 1964).
Purtroppo, però, le cose non andarono come il primo ministro israeliano Ben Gurion aveva desiderato. Innanzitutto, l’intera faccenda sollevò diverse perplessità. Oltre alla spettacolarizzazione del processo, voluto dalle autorità israeliane, il rapimento di Eichmann era certamente una violazione del diritto internazionale, oltre che dell’imputato. Ma, soprattutto: era giusto che Eichmann fosse processato dai vincitori e senza aver infranto alcuna legge in vigore in Germania durante il Terzo Reich? Fu, tuttavia, Eichmann stesso a causare per ben due volte smarrimento in tutti quelli che seguivano il processo, giudici compresi.
La prima volta, al suo apparire in aula, semplicemente mostrando il suo aspetto. Tutti si aspettavano un militare fiero, dall’aspetto marziale: quello che gli apparì davanti era, invece il più misero dei travet, che nemmeno il geometra Filini: «Un uomo di mezza età, di statura media, magro, con un’incipiente calvizie, dentatura irregolare e occhi miopi, il quale per tutta la durata del processo se ne starà con lo scarno collo incurvato sul banco» (così la Arendt).
La seconda volta quando l’imputato «improvvisamente dichiarò con gran foga di aver sempre vissuto secondo i principi dell’etica kantiana, e in particolare conformemente a una definizione kantiana del dovere». Questa dichiarazione di Eichmann scandalizzò molti, ai quali sembrò che il nazista profanasse il pensiero dell’illustre filosofo. Eppure egli era così sicuro di quanto affermava, e la citazione così precisa, che qualcuno tra i presenti fu colto da un dubbio: e se avesse ragione? Se quanto è accaduto in Germania non fosse altro che la logica conseguenza del pensiero di Kant? E, di conseguenza, della riforma luterana (Kant era figlio di un pastore luterano)? Lo scomodo quesito restò nelle pagine della Arendt e fu dimenticato. Eppure è lì, nero su bianco, a tormentarci.
Kant espose la propria morale ne La critica della ragion pratica (1788). Senza farla troppo lunga, basti dire che Kant risolve la questione morale spiegando che «si deve perché si deve»; che, d’accordo, non è una spiegazione. Significa che bisogna obbedire alle leggi semplicemente perché sono leggi; e all’autorità semplicemente perché è l’autorità: in questo consiste la morale. È il risultato dell’antropologia luterana (l’uomo non è libero, ma sempre etero-diretto) con una spruzzata di empirismo inglese (l’uomo non può conoscere altro che la materia e le leggi morali e religiose sono inconoscibili). Questa fu infatti, la difesa di Eichmann: perché mi processate? Non solo non ho infranto le leggi; non solo ho obbedito alle leggi. Ma, in tutta la Germania, voi non troverete un altro che si sia distinto per zelo kantiano come me. Dunque, perché mi processate? Se ho seguito le leggi non ho fatto nulla di male.
E adesso il gentile lettore chiederà: ma perché questo ci annoia raccontandoci queste cose? Che ci importa, che c’entra con la nostra vita?
Spiego. Mi guardo intorno, parlo con le persone che incontro, osservo. In alcuni la paura è ancora forte; in molti, invece, è molto diminuita. Eppure il clima resta invivibile. Ci sono ancora persone additate perché portano la mascherina lasciando il naso scoperto o perché mostrano scetticismo sulle misure anti-covid. Sento invocare le punizioni peggiori per chi esercita un minimo di pensiero critico («Non meriti il sistema sanitario!»), alcuni professionisti sono stati puniti per aver espresso un dissenso nei confronti del pensiero mainstream, continua la caccia all’untore con il naso fuori della mascherina, ancora non abbiamo superato«gli sceriffi del poggiolo». E l’argomento di tutti costoro è sempre quello kantiano, eichmanniano: «È la legge. Punto».
Il buono, il giusto, il sensato, il morale è ridotto al legale: lo dice la legge, serve altro? Giusta o sbagliata che sia, è la legge. Non sono d’accordo, ma la legge…
Ecco ciò che sconvolse la Arendt durante il processo Eichmann. Il male non è feroce, è peggio: è banale. Da questa constatazione ella trasse il fortunato titolo del suo libro. Eichmann, la personificazione del male, era un uomo banale. Noioso, grigio. «Non era stupido, era semplicemente senza idee». Si esprimeva per frasi fatte, ha letto il suo primo libro in età adulta. Beh, vi dirà la verità: io ne vedo molte, in giro, di persone così. Credono di pensare, di avere un’opinione; in realtà, semplicemente, ripetono ciò che hanno ascoltato in televisione o hanno letto sui social. Pensano di sapere ciò di cui parlano semplicemente perché hanno ascoltato l’esperto di turno intervistato sui media. Non ammettono che il mondo sia complesso perché non lo capiscono; hanno bisogno di schieramenti dicotomici (buoni/cattivi) da favola per bambini; credono che chiunque non pensi né abbia progetti perché loro non lo fanno.
Sono Eichmann. Tanti piccoli Eichmann. Cittadini modello che pensano ciò che devono pensare, obbediscono, colorano stando nelle righe. Otto Adolf Eichmann è il modello e il simbolo dell’uomo contemporaneo. Chissà come reagirebbe, se lo sapesse.