I social network orgogliosi di censurare Trump
Ogni volta che Trump pubblica qualcosa su Facebook, gli admin avvertono i lettori che sta dicendo il falso sulle elezioni del 2020. Quasi ogni volta che pubblica qualcosa su Twitter, viene direttamente censurato. Gli amministratori delegati delle due compagnie, Mark Zuckerberg e Jack Dorsey, convocati in Senato per un'audizione, hanno ammesso la censura con orgoglio, nel nome della lotta alla disinformazione (di una sola parte).
Ogni volta che il presidente Trump pubblica qualcosa su Facebook, appare una scritta sotto i suoi messaggi. E’ Facebook che interviene, invitando i lettori a verificare le notizie, dando link a fonti “indipendenti” e comunque ricordando che “Joe Biden è il vincitore previsto per le elezioni del 2020”. Quando Trump ha denunciato brogli, Facebook è intervenuto facendo una vera e propria lezioncina storica, tratta dal sito del “Bipartisan Policy Center”, in cui si ricorda che “sia il voto per corrispondenza che quello di persona sono storicamente affidabili negli Stati Uniti”. Ma Facebook non dovrebbe essere semplicemente una piattaforma? Twitter, in compenso, è più diretto: ogni volta che Trump ha twittato i suoi proclami di vittoria o di brogli ed elezioni rubate… gli admin glieli hanno sistematicamente cancellati. I commenti di Trump rimossi da Twitter sono ormai una costante, dal 3 novembre in poi. Questi casi hanno indotto la Commissione giustizia del Senato degli Stati Uniti a convocare gli amministratori delegati dei due social network, Mark Zuckerberg (Facebook) e Jack Dorsey (Twitter). Entrambi hanno partecipato alla sessione in remoto. Le loro risposte sono state sorprendenti.
Sia Zuckerberg (che ha finanziato la campagna di Biden con 576.988 dollari) che Dorsey non hanno neppure provato a nascondere di essere stati palesemente sbilanciati. Semmai hanno vantato il successo contro la disinformazione (di Trump). Secondo entrambi, in queste elezioni del 2020, infatti, vi sarebbero state meno interferenze. E come esempio per far comprendere quanti passi avanti siano stati fatti, hanno ovviamente citato le elezioni del 2016 (vinte da Trump) caratterizzate dalle “interferenze della Russia” (a favore di Trump). “Sono orgoglioso del lavoro che abbiamo fatto negli ultimi quattro anni per prevenire interferenze nelle elezioni e per sostenere la democrazia”, ha dichiarato Zuckerberg, dove per democrazia non si capisce, a questo punto, se intendesse il sistema democratico o il Partito Democratico.
Il senatore repubblicano Lindsey Graham, riconfermato proprio nelle elezioni del 3 novembre nella South Carolina, ha dichiarato che entrambe le compagnie, Facebook e Twitter, devono prepararsi a questo punto a modifiche della legge, che per ora le protegge da ogni responsabilità diretta sui contenuti, visto che in teoria non si tratta di editori, ma di semplici piattaforme, bacheche virtuali. Il senatore Mike Lee, sempre repubblicano, ha elencato una serie di commenti di parte conservatrice che sono stati censurati o segnalati da Facebook. “Mentre ci sforziamo di fare del nostro meglio e di essere più precisi che possiamo, faremo sempre degli errori”, si è scusato Zuckerberg, anche se il senatore Lee gli ha fatto notare che questi “errori” sono commessi sempre ai danni di una sola parte. Il senatore Ted Cruz, ex candidato repubblicano alle primarie del 2016, ha messo il dito nella piaga, citando la politica di Facebook sulle elezioni, portando ad esempio proprio gli ubiqui messaggi di spiegazione, come “Joe Biden è il vincitore previsto delle elezioni del 2020”, o, come abbiamo visto prima, sull’affidabilità storica del voto negli Usa. “Questo vuol dire prendere una posizione politica, discutibile, e quindi, nel momento in cui lo fa, lei sta agendo da editore”. Quindi, rivolgendosi sempre a Zuckerberg: “Lei non può pretendere di non essere un editore e di beneficiare per questo dei vantaggi del Paragrafo 230”, cioè della norma che conferisce l’immunità alle piattaforme online.
Gli amministratori delegati dei due social network non sono stati lasciati in pace neppure dai senatori democratici, ma per i motivi opposti. Secondo Richard Blumenthal, senator del Connecticut, gli sforzi compiuti dale due compagnie per combattere la disinformazione sono solo “piccoli passi”. Aggiungendo: “Dovete fare di più per essere all’altezza di questo momento e per usare tutto il vostro potere e denaro dalla parte giusta della storia” (corsivo nostro). Il senatore teme che i social network “traballino e si trincerino”, prima del prossimo appuntamento elettorale importante, il ballottaggio per i due seggi senatoriali della Georgia, che determinerà la maggioranza in Senato. Dianne Feinstein, senatrice della California, è arrivata a lamentarsi con Twitter perché il social si è semplicemente limitato a segnalare e non a rimuovere molti dei messaggi di Trump. Dorsey si è giustificato sostenendo che la sua piattaforma è più finalizzata a fornire più spiegazioni alla gente, ma ha comunque detto alla Commissione che le nuove regole di Twitter nel segnalare e rimuovere le informazioni false o fuorvianti sono “un grande passo avanti”, anche se queste misure “hanno suscitato proteste da parte di Trump”. Quali informazioni sotto accusa? Tutto ciò che Trump ha detto su coronavirus, voto postale e dichiarazioni di vittoria nelle elezioni.
Prima ancora dell’Election Day, Twitter aveva rimosso tutti i messaggi riguardanti lo scoop del New York Post (e bloccato chi provava a rilanciarli, fosse anche la Casa Bianca) sulle email del figlio di Joe Biden, che proverebbero affari non troppo puliti in Ucraina e Cina. “Lei realizza che, rimuovendo quella storia, le ha probabilmente dato più importanza e visibilità di quanto ne avrebbe avuta ignorandola?”, ha chiesto il senatore repubblicano John Cornyn a Dorsey. E l’amministratore delegato di Twitter ha risposto che, “Lo abbiamo capito e lo riconosciamo come un errore”. Un errore… perché ha finito per dare visibilità ad una vicenda che ha potenzialmente avvantaggiato Trump. In ogni caso, la soppressione di quelle notizie (da verificare, come tutte le notizie) ha avuto il suo impatto nelle elezioni. Secondo un sondaggio effettuato da McLaughlin & Associates il 36% degli elettori di Biden non sapeva nulla del presunto scandalo. Di questi, il 13% ha risposto che, se lo avesse saputo, non avrebbe votato per il candidato democratico. Una differenza che, in elezioni che si concluderanno sul filo del rasoio, avrebbe potuto determinare la vittoria di Trump.