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LAVORO

I sindacati primi nemici del diritto allo sciopero

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Il clamoroso flop dello sciopero del 17 novembre certifica la crescente sfiducia nei confronti di questa arma sindacale, che si aggiunge al pasticcio giuridico creato nell'occasione. La genericità dei motivi ha fatto il resto. Ci vorrebbe una seria autocritica.

Politica 27_11_2023
Sciopero Cgil-Uil (Ansa)

Lo sciopero di Cgil e Uil dello scorso 17 novembre, oltre che problematico sul piano giuridico, si è rivelato fallimentare su quello sindacale. Ampiamente pubblicizzato dai principali organi di stampa, di tale sciopero nulla si è più scritto dalla sera stessa.
In effetti, nonostante i dati entusiastici offerti dalle organizzazioni proclamanti, quelli oggettivi – pubblicati sul sito del Ministero per la pubblica amministrazione alla pagina del “cruscotto scioperi” – dicono l’opposto. I numeri ancora non sono completi, ma al 24 novembre risulta che nel 34% degli enti pubblici mediamente solo il 7% dei lavoratori abbia aderito allo sciopero. Un flop clamoroso, di cui però i media hanno perlopiù preferito non dar conto.

V’è da stupirsi dell’insuccesso? Probabilmente no.
Va in primo luogo ricordato come la proclamazione fosse priva, ab initio, della firma della Cisl, il secondo sindacato italiano, che pur condividendo alcune ragioni della protesta ne ha contestato il metodo: il conflitto collettivo, infatti, dovrebbe costituire la soluzione estrema, dopo l’esito insoddisfacente del dialogo. Ora, si può naturalmente progettare uno sciopero “generale” senza l’unanime consenso sindacale, ma la mancata partecipazione di una grande confederazione rende prevedibile, da subito, un impatto depotenziato.

In secondo luogo, l’atto di proclamazione ha costretto all’intervento la Commissione di garanzia per lo sciopero nei servizi pubblici essenziali. Il Garante, nella fattispecie, non ha fatto altro che applicare orientamenti consolidati, sancendo in sintesi: a) che non si tratta di sciopero generale allorché, come nel caso in discussione, l’indizione non chiami a raccolta tutte le categorie (anzi, essendone escluse molte e rilevanti); b) che quello del 17 novembre era da qualificarsi piuttosto come sciopero intercategoriale; c) con la conseguente, obbligatoria applicazione di un duplice limite: il distanziamento di almeno 10 giorni rispetto a scioperi precedenti o successivi, previamente proclamati, e l’osservanza del limite di durata massima previsto, sulla base delle regole applicabili ai vari settori, in occasione della prima astensione.

Cgil e Uil hanno finto stupore, accusando la Commissione di essere compiacente nei confronti del governo. Si tratta di una accusa grave, anche perché i sindacati sanno bene come la presa di posizione del Garante corrisponda a delibere adottate in tempi risalenti (ad esempio, del. 131/01 del 15 novembre 2001 e del. 09/619 del 14 dicembre 2009) e costantemente applicate.
A quel punto, i sindacati si son trovati costretti a revocare lo sciopero nel trasporto aereo, rifiutando però di rimodularlo, secondo le indicazioni della Commissione, con riguardo ad altri settori (come il trasporto locale).

Dinanzi a tale manifestazione di volontà, l’atto di precettazione da parte del Ministro dei trasporti risulta giustificato, configurandosi, ai sensi dell’art. 8, l. n. 146/1990, “il fondato pericolo di un pregiudizio grave e imminente ai diritti della persona costituzionalmente tutelati”, tra cui la libera circolazione delle persone.
Salvi gli esiti del preannunciato ricorso al Tar contro la precettazione, Cgil e Uil, al fine di non esporre i lavoratori scioperanti al rischio di subire sanzioni amministrative, hanno dovuto arrendersi a rivedere pure le modalità orarie dello sciopero.

Ma il pasticcio giuridico forse non è sufficiente a spiegare la scarsa adesione della base dei lavoratori. Più in generale, negli anni, occorre notare che il ricorso all’astensione sia costantemente decrescente (e sia soprattutto concentrato nel settore del trasporto pubblico). Tra le varie e possibili ragioni, l’impressione è che si percepisca la scarsa efficacia dello strumento in relazione agli obiettivi auspicati di progresso sociale.

E l’inefficacia si accresce quanto più i motivi dello sciopero sono generici. Lo sciopero del 17 novembre, a tal proposito, era finalizzato a contestare le politiche governative su quasi ogni materia di interesse pubblico: lavoro, pensioni, sanità, fisco, immigrazione, ecc. Un oggetto tanto vasto non può che lasciare perplessi, perché l’“agitazione”, almeno sul piano del risultato comunicativo, si riduce a una manifestazione di ostilità politica verso la maggioranza di turno, mettendo in ombra le rivendicazioni più propriamente professionali ed economiche delle categorie interessate.

V’è da chiedersi, alla luce di ciò, se l’attacco al diritto di sciopero, al di là delle intenzioni, di fatto non provenga proprio da coloro che dovrebbero avere interesse a custodirlo.