I quaranta giorni di Gesù nel deserto
Il Vangelo non fa sconti sull’importanza del digiuno,
non solo come personale offerta
di un sacrificio, ma come mezzo efficace offerto ai discepoli
per rendersi utili, a beneficio
dei fratelli, contro le insidie
del demonio. Come ricorda
il Vangelo, storico, di Matteo.
Il messaggio del Papa per la Quaresima 2012 presenta questo tempo liturgico forte come un momento propizio per rinnovare il cammino di fede. Benedetto XVI prende spunto da un passo della lettera agli Ebrei (Eb 10,24) per ricordare che Gesù è il sommo Sacerdote che ha ottenuto il perdono e l’accesso al mistero di Dio. Si tratta di accostarsi al Signore con cuore sincero, nella pienezza di fede, salda la speranza, facendo attenzione ad esercitare insieme ai fratelli la carità, partecipando convenientemente alla liturgia, guardando alla meta ultima che è la comunione piena in Dio.
Anzitutto bisogna avere uno sguardo attento e non affannato: non c’è un qualcosa da conquistare, da succhiare, da strappare: c’è solo da accogliere innanzitutto la sollecitudine provvidente di Dio, facendoGli spazio e prestando attenzione a Gesù (Eb 3,1), garanzia della capacità di non mostrarsi estranei ed indifferenti alla sorte dei fratelli, da custodi (e non da proprietari) loro e del creato.
In questa chiave che fa aprire la porta delle settimane della Quaresima si può gustare il senso di un tempo vissuto da Gesù stesso all’inizio della sua vita pubblica.
Gesù era appena stato battezzato da Giovanni il Battista. Doveva ancora segnalarsi come Messia (il primo “acuto” avverrà alle nozze di Cana, poco prima della Pasqua successiva). Doveva ancora proporsi per esercitare il magistero salvifico, fatto di “correzione fraterna”, mite e determinata, fondata sulla verità, volta alla responsabilità spirituale verso l’umanità intera, non rinunciando ad ammonire i peccatori, pur amandoli.
Giovanni il Battista aveva acquisito notorietà nel quindicesimo anno di Tiberio, ovvero a partire dal 29 d.C. Il battesimo di Gesù è verosimilmente successivo al compimento del trentesimo anno, che rappresenta un’età assai significativa per un israelita chiamato ad assumere un ruolo (Numeri 4,1-4). Gesù è nato sul finire del 2 a.C., compiendo perciò trent’anni al termine del 29 d.C.
L’anno 29 d.C., a cominciare da tishri secondo il modo di computare gli anni del popolo ebraico, è un anno sabbatico. Questo assunto è spiegabile contando di sette in sette gli anni a partire dall’unico anno sabbatico esplicitamente citato nella Bibbia (1 Mac 6,49-53), avendolo individuato in quello che secondo la nostra attuale cronologia è il 161-160 a.C.
Il movimento sviluppatosi attorno a Giovanni prese progressivamente vigore. Nell’estate dell’anno 30 d.C. Gesù si reca al Giordano. È ragionevole che la stagione più calda fosse la preferita dalla gente desiderosa di purificarsi dai peccati, che andava perciò ad immergersi nelle acque del fiume.
Ancor più ragionevole appare l’intensificarsi del flusso dei penitenti se consideriamo che l’anno entrante con il finire dell’estate, con inizio nel mese di tishri del 30 d.C., era il primo anno dopo quello che concludeva sette settimane di anni, ossia il cinquantesimo, quindi si entrava in un anno giubilare secondo le ragioni già esposte nel sopra citato articolo.
Alla luce di tutte queste informazioni diventano dunque ulteriormente significativi e caratterizzabili i quaranta giorni trascorsi da Gesù nel deserto: infatti il mese di elul, il sesto mese del calendario ebraico, sanciva lo scoccare di un periodo di mortificazione e rinuncia per gli israeliti più osservanti o che si sforzavano di ritornare all’osservanza smarrita. I trenta giorni del mese di elul, sommati ai primi dieci di tishri fino al giorno dello yom kippur, rappresentano l’arco temporale di quaranta giorni nei quali Gesù visse nel deserto. Rapportato all’odierno calendario gregoriano, il periodo nell’anno considerato (il 30 d.C) va dal 15 agosto (1 elul) al 23 settembre (10 tishri).
Il mese di elul per la tradizione ebraica rappresenta un mese di ritorno a Dio (teshuva) e all’osservanza delle prescrizioni. È proprio, come oggi per i cristiani, una quarantena di conversione. È il mese in cui si coltiva il desiderio di intimità tra l’uomo e Dio: Osea 2,16-18 per gustare da liberi il frutto della liberazione dalla schiavitù del peccato e del rifiuto dell’amore di Dio.
Quaranta giorni sono a memoria dei quarant’anni trascorsi nel deserto dopo l’uscita dalla schiavitù d’Egitto. Quaranta giorni li trascorse digiunando Mosè ricevendo le tavole della Legge (Es 34,28).
È dunque un tempo prezioso per prepararsi degnamente ad un appuntamento specialissimo.
È un tempo necessario per disporre i cuori all’entrata, finalmente, nella Terra Promessa e che oggi cristianamente precede la Pasqua, ovvero la gioia per la salvezza meritataci dagli infiniti meriti di Gesù Cristo crocifisso e risorto. È un tempo in cui il credente cerca di essere affamato soprattutto della presenza di Dio.
Gesù, subito dopo aver ricevuto il battesimo dai Giovanni, va nel deserto a pregare e a digiunare (Mt 4,2). Ci va pur non avendo peccati suoi, ma unito alla volontà di purificarsi di un popolo intero, alle porte di un anno giubilare (ormai ufficialmente impraticato, pur essendo regolarmente computato da chi si ostinava a farlo). Non è un tempo facile, infiltrato -persino per Gesù- dalla tentazione, quella più sottile, capace di rivolgersi all’anima addirittura utilizzando, a sproposito, la Parola stessa di Dio. Ed al suo termine c’è il giorno dello yom kippur, il giorno dell’espiazione, il giorno in cui verosimilmente Zaccaria, presentando l’incenso, ricevette l’annuncio della nascita di un figlio da Elisabetta, ormai avanti negli anni, secondo la successione dei fatti già presentata su La Bussola Quotidiana in due precedenti occasioni.
Il Vangelo non fa sconti sull’importanza del digiuno, non solo come personale offerta di un sacrificio, ma come mezzo efficace offerto ai discepoli per rendersi utili, a beneficio dei fratelli, contro le insidie del demonio (Mt 17,21). Il vangelo invita a non vantarsi del digiuno (Lc 18,12) o a non presentarlo come una tristezza (Mt 6,16-17), perché lo veda solo il Padre, nel segreto.