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SCANDALO OPPIDO

I professionisti (ecclesiali) dell'antimafia

Gli esempi positivi non mancano: vescovi e preti, in Calabria, hanno preso il coraggio a due mani e affrontato caso per caso, senza sopprimere processioni o sacramenti, ma purificandoli dalla strumentalizzazione dei mafiosi.

Ecclesia 14_07_2014
Oppido Mamertina

Il peggio che può accadere è che, in ossequio ai consueti meccanismi mediatici, dopo animate discussioni pro o contro il parroco, o il sindaco, o il maresciallo, e dopo che sulla vicenda hanno pontificato in tanti, fra qualche giorno non se ne parli più. In attesa, ovviamente, del prossimo scandalo. Invece il clamore sollevato dalla processione di Oppido Mamertina può dare ragione alla massima evangelica “necesse est enim ut veniant scandala”, se si prova a fissare qualche punto fermo.

Intanto meraviglia la meraviglia attorno all’episodio. Non è il primo, i precedenti sono innumerevoli: nel 2011 la festa dei “gigli” a Barra, alle porte di Napoli, in onore di S. Antonio, fu la cornice per la performance di un camorrista da poco scarcerato – col parroco del luogo che faceva il pesce in barile – e nel 2012 furono necessari prefetto e magistratura di Napoli per impedire il bis. A Castellamare di Stabia, il 19 gennaio del 2011 e del 2012, non un carabiniere, ma l’allora sindaco Luigi Bobbio, abbandonò visibilmente la processione per l’omaggio reso dalla statua del patrono S. Catello al capoclan della città, mentre costui la seguiva dal balcone stando in detenzione domiciliare.

Se non è il primo, si può lavorare perché sia l’ultimo, valorizzando esempi positivi, che non mancano. Uno di questi, per restare in Calabria, riguarda Sant’Onofrio, alle porte di Vibo Valentia, con la processione dell’Affruntata, portata su binari differenti da quelli voluti dalla ‘ndrangheta proprio su iniziativa dell’autorità religiosa. L’Affruntata è una delle devozioni più sentite nella regione e fra i calabresi nel mondo, e a Sant'Onofrio ha qualcosa di particolare: un’asta stabilisce chi saranno i portatori delle statue. L’asta è gestita – come l’intera manifestazione – dalla Congrega del Rosario, e pone all'incanto le statue di Giovanni, di Maria e del Cristo, il baldacchino di Gesù e la mazza di san Giovanni. Nell’aprile 2010 Mons. Luigi Renzo, vescovo della diocesi di Mileto, dà disposizioni per evitare che i portatori delle statue siano uomini delle ‘ndrine. La reazione giunge nella notte di Pasqua: colpi di arma da fuoco sono esplosi contro il cancello dell’abitazione del priore della Confraternita. La processione non viene soppressa, ma sospesa e rinviata alla domenica successiva, durante la quale si svolge secondo le regole fissate dal vescovo.

Nel 2011 il presule stabilisce per tempo che le statue siano portate dai “giovani che frequentano la parrocchia, e sono veramente impegnati in un cammino di fede”; anche in tal caso non mancano i gesti di intimidazione per scoraggiare la novità. Come per il 2010, il prefetto di Vibo Valentia prende in mano la situazione, d’intesa con il vescovo (che a sua volta esorta i sacerdoti a “essere più coraggiosi e uniti”); l’ordine è che o le statue sono rette dai giovani, o a sfilare con le statue in spalla saranno carabinieri, poliziotti e vigili del fuoco. Stavolta non è necessario rinviare la processione: essa si tiene seguendo le indicazioni della Chiesa. Non vi è stato alcun black-out di processioni o di “padrinaggi” per battesimi e cresime: vi è stato un affrontare di petto la singola concreta situazione puntando a eliminare dalla manifestazione sacra l’inquinamento mafioso.

Quel che non riesce a emergere per Oppido – e nel dibattito che ne è scaturito – è la capacità, o la volontà, di trattare ogni specifica vicenda di strumentalizzazione della fede senza ricorrere a rimedi in apparenza facili e generalizzati. La moratoria delle processioni o dei padrini ha il merito di sottolineare la gravità del problema: ma qual è il passo successivo? Ci sarà un passo successivo? Se il discorso inizia e finisce con interventi di emergenza lascia margini a soluzioni costruttive? Non rischia di avallare la convinzione – che si è letta anche in commenti riguardanti Oppido – che vi è una “fede criminale” da rifuggire, con qualche sinistro mafiologo che si erge ad arbitro per tracciare il confine tra la fede “buona” e quella “criminale”? Il riflesso condizionato da contrastare è simile a quello del rapporto tra mafia e famiglia: quanti “esperti” hanno sostenuto che la struttura familistica di talune forme mafiose sarebbe l’effetto del carattere criminogeno della famiglia… Non è il caso di far consolidare posizioni analoghe per la religione.

Vale anche per la scomunica. Sulla quale le parole di Papa Francesco a Sibari, in continuità con quelle pronunciate dei suoi predecessori, non vanno discusse: vanno applicate, con intelligenza e con amore, e quindi con una verifica caso per caso. L’eventuale esclusione dalla comunione ecclesiale non riguarda la massa, ma le singole persone; identica specificità merita il riavvicinamento alla comunione: un percorso possibile nell’ordinamento della Chiesa, non un gesto veloce e banale. Un conto è la preoccupazione che può aver espresso il singolo mafioso, a seguito di un sincero turbamento causato dal richiamo del Pontefice: una preoccupazione che avrà come esito il confessore, con la dovuta segretezza. Un conto sono prese di posizione pubbliche come quella degli ndranghetisti nel carcere di Larino: qualcosa a metà fra la reazione “di categoria” e l’“avvertimento”. È singolare la rapidità con cui, forse non valutando la gravità dello “sciopero della Messa”, qualche cappellano e qualche vescovo rassicurano che la Chiesa non caccia nessuno e che loro proseguiranno ad amministrare i sacramenti. Come se il Papa avesse parlato a vuoto.

Non è in discussione – ci mancherebbe! – la sovrabbondanza della grazia di Dio per coprire le cadute dei singoli, anche gravi o ripetute. La questione è diversa: la “mafia” non è mera sommatoria di colpe individuali, ma è una vera struttura di peccato; non è un insieme di cadute frutto della debolezza dell’uomo, bensì la programmata realizzazione di atti contro l’uomo; è un porsi contro Dio in modo non occasionale, pianificato e strutturato; è un sostituire la propria legge di prevaricazione e di odio alla legge di Dio.

E in questo le mafie sono simili ai regimi totalitari: le une e gli altri pretendono di regolare nei dettagli la vita di coloro verso i quali estendono il potere, senza che nulla resti fuori. Le une e gli altri applicano le sanzioni più dure per atti di disobbedienza, soprattutto quando si manifesta il desiderio di vivere in libertà. Le une e gli altri conoscono rituali, gerarchie del male, tecniche di seduzione e di intimidazione. Le une e gli altri alla fine prostrano e mortificano anche fisicamente le persone con cui hanno a che fare, e riducono in miseria le terre nelle quali operano. Le une e gli altri utilizzano realtà in sé buone, distorcendone il significato e la sostanza: come negli Stati totalitari le manifestazioni di piazza o negli stadi surrogano la voglia naturale di esprimere esteriormente e comunitariamente un ideale, così nelle realtà mafiose la presenza visibile e rispettata nelle processioni coincide con il tentativo di appropriazione di taluni dei simboli del consenso e della vicinanza della popolazione.

La ragione dello scandalo di Oppido sta qui. La lezione da trarne si gioca anzitutto sul terreno ecclesiale; dai fedeli e da chi li guida non ci si attende una versione clericale dell’antimafia di professione, ma lo sforzo di rendere sinceri il rito e la devozione: non demonizzandoli né sopprimendoli, ma purificandoli.