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DIVERSE VISIONI

I Paesi frugali, l’Italia e la bellezza delle cicale

Recovery Fund, al danno dei pochi spiccioli, si unisce la beffa: l’Italia, insieme ai Paesi mediterranei, è stata additata dal club dei «frugali» con lo sprezzante epiteto di «cicala». Eppure, le cicale impiegano il tempo nel canto, che è armonia e quindi riflesso dell’ordine dell’universo. L’Ue ci vorrebbe tutti formiche, ma sicuri che non sia solo invidia?

Cultura 11_08_2020

C’è stato un gran parlare del Recovery Fund, e sappiamo benissimo com’è andata. I Paesi «frugali» (Austria, Danimarca, Finlandia, Olanda, Svezia) hanno avuto un importante sconto sui versamenti all’Unione Europea, mentre l’Italia ha ricevuto qualche inutile spicciolo che dovrà restituire con gli interessi ma, soprattutto, con le famose «riforme strutturali» (delle quali ci accorgeremo tra qualche anno).

La cosa più interessante (e divertente) della faccenda è che al danno si è unita la beffa: i beneficiari hanno rispolverato la celebre favola di Jean de La Fontaine (1621-1695) e si sono autoproclamati «le formiche», additando l’Italia e i Paesi mediterranei con lo sprezzante epiteto di «cicale» (vedi qui). Non vorrei sprecare tempo a discutere se l’Italia sia o meno una «cicala»; tuttavia, qualche riflessione emerge spontanea.

Per comporre la sua celebre favola, La Fontaine si è ispirato all’autore greco (pare d’adozione) Esopo (ca 620 a.C. - 564 a.C.). La morale della favola di Esopo («La favola insegna che in ogni circostanza di vita bisogna guardarsi dall’essere trascurati, per non soffrire e non trovarsi nei pericoli») invita alla previdenza, dando così ragione ai rappresentanti dei Paesi «frugali». La favola, però, si presta anche ad un’altra interpretazione. La formica potrebbe anche apparire gretta e meschina, nel suo diniego a condividere un po’ di cibo con la cicala; e quest’ultima potrebbe anche essere vista come colei che ha ben sfruttato l’estate, invece di passarla accumulando beni materiali. Sì, perché la cicala, durante l’estate, non se n’è stata in panciolle: ha cantato. E cantare, secondo il mio inutile parere, significa impiegare il tempo in modo meraviglioso.

Il canto è melodia e armonia, è cioè espressione e riflesso dell’ordine e della proporzione dell’universo; risponde cioè ad un bisogno importante tanto quanto (se non più) quello di accumulare il cibo per la cattiva stagione. Ricordiamo in che modo Tolkien (1892-1973) descrive la creazione del suo universo: tutto è stato creato per il tramite del canto degli Ainur, «i primi». Il canto è creazione, il canto è partecipazione dell’armonia del cosmo.

A questo punto non possiamo fare a meno di ricordare il celebre brano del Vangelo nel quale Gesù va a trovare le sue amiche Marta e Maria: «Mentre erano in cammino, entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo ospitò. Ella aveva una sorella, di nome Maria, la quale, seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola. Marta invece era distolta per i molti servizi. Allora si fece avanti e disse: “Signore, non t’importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti”. Ma il Signore le rispose: “Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta”» (Lc 10, 38-42). In questa parabola, Marta è la formica e Maria la cicala. Mentre Marta si affanna e si agita per molte cose, Maria contempla. Non canta, ma ascolta il canto: la splendida armonia delle parole del Logos incarnato. Ed è questa, spiega Gesù, la parte migliore.

Ma il pensiero spicca nuovamente il volo, e ci porta a un film del 1964: Zorba il greco, tratto da un romanzo di quel Nikos Kazantzakis (1883-1957) che fu autore de L’ultima tentazione di Cristo (vedi qui). Nel romanzo autobiografico, dedicato al suo amico e mentore Giorgio Zorba (1865-1941), Kazantzakis prende le sembianze dell’inglese Basil. La vita di Zorba è assolutamente sconsiderata: canta, balla, mangia, copula senza pensare al domani. Basil, invece, è un uomo d’affari: pensa al denaro, a come farlo fruttare e accumularne sempre di più. Alla fine del film, il progetto di Basil e Zorba (recuperare una miniera) fallisce miseramente, finisce in un disastro. E, di fronte all’ennesima catastrofe, Zorba… balla. Balla il famosissimo sirtaki. Una perfetta cicala.

Qual è la morale del film? Semplice. Zorba è greco, cioè mediterraneo, come l’Italia. È vero, i Paesi mediterranei sono cicale. Hanno il sole, il mare, lunghe giornate calde e brezze piacevoli, una natura meravigliosa, paesaggi mozzafiato; hanno storia, cultura, monumenti. Come si può non mettersi a cantare? Come non lodare la bellezza e la perfetta armonia che deborda da ciò che essi vedono ogni giorno? E infatti gli italiani hanno stupito il mondo quando, chiusi in casa senza poter lavorare, circondati da un virus che si temeva fosse peggiore della peste nera, sono usciti sul balcone e si sono messi a cantare. Cicale.

Ora, oltre alle conseguenze della quarantena, c’è questo nuovo debito da pagare. Un debito concesso a malavoglia e con un certo disprezzo dalle frugali formiche europee. Le conseguenze, temo, saranno importanti. L’Unione Europea, nella quale siamo entrati con la promessa di un’eterna estate («Lavoreremo un giorno in meno, guadagnando come se lavorassimo un giorno in più»), ci ha dato un lungo e rigido inverno di austerità. Eppure gli italiani cantano.

Qualcuno lo ha scritto: l’Unione Europea educherà gli italiani a diventare formiche, ma non credo che funzionerà. Quando tutto sarà crollato ci troveremo, come Zorba e Basil, sulla spiaggia a commentare il disastro. Suoneremo e canteremo. E balleremo il sirtaki. È la parte migliore. Siamo sicuri, care formiche, che la vostra non sia semplicemente invidia?