I nostri figli ci guardano, ora più che mai
In questi giorni i nostri figli ci guardano più che mai e da loro si può comprendere quanto tutto quello che accade li stia toccando profondamente. Ma i bambini sono lo specchio di noi adulti. Lo si capisce dagli scritti di due di loro, entrambe scosse ma con prospettive molto diverse: a dire della grande possibilità che abbiamo di educare alla speranza senza censurare la realtà.
In questi giorni i nostri figli ci guardano più che mai e da loro si può comprendere quanto tutto quello che accade li stia toccando profondamente. Sul Daily Mail è stato pubblicato un foglio di appunti di una bambina di 8 anni, che, pur chiusa in casa con la sua famiglia, scrive così: «Cerca di tenerti occupata. Lavati le mani. Cerca di non toccarti la faccia. Non andare troppo spesso nella stanza delle altre persone. Cerca di stare ad un metro di distanza dagli altri…». Poi, riguardo ai suoi sentimenti, afferma: «Un po’ ho paura un po’ sto bene. Ma mi sento sempre meglio quando penso che nessun bambino è morto di questo (virus, ndr)». Se si legge attentamente il commento di questa piccola si capisce che a dominare in lei è la paura a cui risponde con un approccio estremo di terrore verso l’altro. Le sue parole dicono infatti di un possibile nuovo esercito di bambini istruiti (come non mai, dato il bombardamento costante di questi giorni) a fare i bravi cittadini, ma in realtà a pensare all’altro come un pericolo, preferendo stare da soli piuttosto che correre il rischio di andare addirittura nella stanza di mamma, papà e fratelli.
Il padre di questa piccola, Greg Hughes, ha infatti voluto pubblicare, spaventato, lo scritto della bambina per dire che occorre «smettere di parlare così tanto delle pandemie e del coronavirus» ai figli. Ma può essere questa la soluzione data la gravità della situazione di paesi bloccati, quotidianità rovesciate, chiusure in casa forzate? Certamente un limite va posto, ma ovviamente non si può né celare del tutto la preoccupazione per quanto sta avvenendo, né privare i piccoli di una spiegazione. Né quindi pretendere che non siano agitati o preoccupati. Il punto allora è un altro: cosa spiegare loro e cosa far si che domini nei nostri figli? La preoccupazione e la paura o la speranza?
Sempre in questi giorni una bambina di 10 anni ha scritto un tema che va in direzione opposta alle parole della piccola inglese, in cui da una parte non censura i suoi sentimenti umani, la fatica, lo stravolgimento, ma dall’altra non è sopraffatta: «In questo momento non riesco a pensare, sono successe troppe cose in fretta. Il nonno, un dottore…si è ammalato, poi si sta sempre più a casa, infine non ci si vede con gli amici, lo stare in compagnia, ecco cosa mi manca…le maestre, loro sì mi mancano tanto: le sgridate, le risate e i bei momenti…ma torneranno presto! Ne sono certa» e «il nonno guarirà». È chiaro che questa bambina, diversamente dalla prima, non accetta la solitudine e la distanza come regola, ma le sopporta nell'attesa di riabbracciare le persone care. E lo fa senza disperarsi. Come sia possibile e cosa determini questa posizione, lo si capisce alla fine: «…Ne sono certa, perché Gesù ci aiuta è sempre con noi».
Ma siccome i bambini, sono lo specchio degli adulti, si capisce anche quel che domina nelle nostre famiglie attraversate da un grande dramma, magari non solo del Covid, ma di un famigliare gravemente malato. A questa seconda bambina non è stato nascosto nulla, probabilmente perché il male e la morte non sono l’ultima parola nella vita dei suoi genitori. Senza questa certezza, senza la sicurezza che siamo nelle mani di Dio, tanto più se lo cerchiamo e affidiamo noi e i nostri cari a Lui, cadremmo tutti nella disperazione o nella fuga o in un regime di regole di vita asettica e sempre più individualista. In cui l’altro diventa, prima che qualcuno con cui si desidera condividere la vita, qualcuno che ce la può sottrarre.
Certamente oggi la nostra fede è messa alla prova: dobbiamo decidere, o almeno desiderare, se affidarci totalmente o meno, se credere davvero che il Signore ci chiamerà a sé quando sarà il nostro momento o se tutto è nelle nostre mani. Da questa decisione, da questo desiderio, dipende la possibilità di vivere o nel controllo ossessivo di ogni atto e rapporto umano o nella prudenza che non sfida Dio, ma che sa che Lui è un padre che ama ciascun figlio. Un Dio che conosce quel che è bene per noi e che può usare anche della malattia per condurci a sé. Da questa decisione, come dimostrano gli scritti delle due bambine, dipende anche l’educazione e la speranza non solo dei nostri figli ma di chi abbiamo intorno. Possiamo lottare generando panico (anche in nome della scienza e del realismo) oppure diffondendo pace e speranza. Pensiamoci bene.