I moti di Gaza, l'ambasciata è un pretesto, il jihad è la causa
E' arrivato il momento della immolazione dei palestinesi, proclamata dai fondamentalisti islamici di Hamas, che dovrebbe segnare l’inizio della fine di Israele. Momento da essi fomentato, preparato e messo alla prova nel 70.mo anniversario della proclamazione dello Stato ebraico, avvenuta il 15 maggio 1948. Il pretesto è il trasferimento dell’ambasciata degli Stati Uniti.
LA NUOVA EUROPA A GERUSALEMME di Stefano Magni
E' arrivato il momento della immolazione dei palestinesi, proclamata dai fondamentalisti islamici di Hamas, che dovrebbe segnare l’inizio della fine di Israele. Momento da essi fomentato, preparato e messo alla prova nel 70.mo anniversario della proclamazione dello Stato ebraico, avvenuta il 15 maggio 1948 a Tel Aviv, alla fine del Mandato della Società delle Nazioni alla Gran Bretagna, in applicazione della risoluzione 181 dell’ Assemblea Generale dell’Onu (del 29 novembre 1947). Decisione considerata un’ autentica nakba, la catastrofe in assoluto, dai palestinesi e, per solidarietà con essi, dalle nazioni arabe che invano avevano votato contro di essa e che reagirono muovendo la prima di tre guerre, tutte perdute (1949, 1967 e 1973).
Il pretesto che ha prodotto la nuova ondata di odio, morte e violenza contro gli israeliani: il trasferimento dell’ambasciata degli Stati Uniti da Tel Aviv a Gerusalemme, deciso dal suo Congresso nel 1993, e sempre procrastinato di sei mesi in sei mesi dai presidenti del tempo. Stabilito per oggi dall’ultimo di essi, Donald Trump, è stato celebrato come segno eloquente del suo amichevole, privilegiato rapporto con lo Stato ebraico; e considerato invece un imperdonabile oltraggio dai palestinesi, che hanno manifestato a Gaza in Cisgiordania e altrove, nonché dai musulmani tutti. Perché Gerusalemme è da essi considerata e venerata come “città santa” per antonomasia (la chiamano infatti Al Quds) e non può essere riconosciuta da alcuno come capitale di uno stato eretto sulla “loro” terra usurpata.
Tante, forse troppe, le circostanze concomitanti avverse: in parte provocate, in parte endemiche ma in fase di “eruzione”, altre espresse da opportunità di varia natura politica ed economica, in un contesto regionale sconvolto dal fondamentalismo musulmano e sfibrato dai conflitti in Afghanistan, Iraq e Siria. Tutte hanno addensato spesse nubi sulla crisi arabo-israeliana, allontanando ancor più le condizioni di ripresa dei negoziati di pace, peraltro in stato di paralisi dopo i compromessi tentati per risolvere le maggiori divergenze nel primo decennio di questo inizio secolo.
Quelle provocate dai palestinesi al potere a Gaza, i fondamentalisti di Hamas – con la “grande marcia per il ritorno” avviata il 30 marzo scorso lungo il confine con Israele, ripetuta ogni venerdì per sei settimane – non si esauriranno domani. Continuerà la fortissima mobilitazione popolare, di migliaia e migliaia di persone, sostenuta da una esagitata campagna propagandistica, “perché non rinunceremo mai alle armi della resistenza, mai alla nostra terra, alla Palestina dal fiume (Giordano) al mare (Mediterraneo)” ha detto il loro leader Ismail Haniyeh. Gli ultimi proclami dei suoi seguaci (“Abbatteremo il confine e strapperemo il cuore degli ebrei”), le efferatezze (persino un asino, avvolto in una bandiera israeliana, picchiato e bruciato vivo), le minacce agli israeliani vicini al confine (“Andatevene senza esitare, quelli che resteranno ne pagheranno tutte le conseguenze”), le provocazioni (bambini spinti o trascinati contro i soldati nella prima linea degli scontri), sono stati fermati in un documentario, realizzato da due operatori palestinesi per il regista francese Pierre Rehov Behind the Smoke Screen (“Dietro la cortina di fumo” dei pneumatici in fiamme).
Questo antagonismo alimentato dall’integralismo musulmano non si esaurisce però contro Israele, è quello che caratterizza il rapporto con i rivali politici interni, i seguaci di Al Fatah, il partito fondato da Yasser Arafat e dalla sua morte guidato da Mahmoud Abbas (Abu Mazen), al potere nei Territori occupati della Cisgiordania, protagonista dei colloqui di pace con Israele e delle parziali intese che hanno portato alla nascita dell’Autorità Nazionale Palestinese. La loro divisione, nei principi e nell’esercizio del potere, è stata in parte superata da un recente accordo tra i “vertici”, che ha portato soprattutto ad un controllo unico dei confini, ma il capo del governo di unità, Rami Hamdallah, il 13 marzo è sfuggito a Gaza ad un attentato, segno di forti resistenze e persistenti divergenze, specie sulle prospettive future del rapporto dei palestinesi con Israele, la realtà regionale, il mondo. La distruzione venerdì scorso, da parte dei fondamentalisti, degli impianti di arrivo a Gaza di gas e gasolio nel versante palestinese del valico di confine di Kerem Shalom (danni per milioni di dollari, lunga riparazione) minaccia di avere ripercussioni sugli assetti politici e di governo.
Le circostanze endemiche sono le rivalità che, dagli albori dell’islam, hanno accompagnato la divisione tra fedeli sunniti e sciiti, le loro tribù e i loro stati; di recente però entrate “in eruzione”, anche per la conflittualità portata nella regione dall’affermazione del sedicente Stato Islamico. Emirati Arabi Uniti, Bahrein e Kuwait hanno visto imprese terroristiche dietro le quali, si è detto, v’erano sciiti “manovrati dall’Iran”. L’Arabia Saudita, come ben sappiamo, combatte da alcuni anni una guerra contro la stabilizzazione della presenza iraniana nello Yemen. La settimana scorsa, per presunte “continue ingerenze sediziose”, il Marocco ha interrotto le relazioni diplomatiche con Teheran. E per il ritiro del presidente statunitense Trump dall’accordo nucleare internazionale con l’Iran, hanno ripreso vigore tutti i paesi sunniti della regione che si sentivano indeboliti, addirittura abbandonati, dalla politica del suo predecessore Obama.
L’avversione di Trump all’accordo nucleare con l’Iran risale a molto tempo prima dell’annuncio del ripudio, ma certamente è stata avvalorata dalle rivelazioni del primo ministro israeliano Netanyahu secondo cui il regime degli ayatollah non lo ha rispettato, ha cioè continuato la corsa al riarmo atomico. Le prove raccolte dai servizi segreti ebraici non hanno però modificato la posizione di altri comprimari e firmatari dell’accordo, Russia, Unione Europea, Nazioni Unite. Si è così palesata una netta e preoccupante divisione nel mondo occidentale con alcuni paesi europei sostenitori di un atteggiamento accomodante con Teheran, pare anche per timore di perdere i loro affari, in aperto contrasto con gli Stati Uniti.
Abbiamo appena visto Trump fermo nell’osteggiare le ambizioni dell’Iran e a riprendere a giocare un ruolo di protagonista in Medio Oriente, anche con il ripristino delle sanzioni. Da parte sua Israele non ha esitato a confrontare la sua forza militare con quella delle forze iraniane in Siria attraverso un reciproco lancio di missili. E per non permettergli di consolidarne la presenza (ricordiamolo, nel paese confinante), abbastanza minacciosa da legargli le mani, ha messo di mezzo la Russia, alleata di Siria e Iran. Questo il senso del viaggio a Mosca il 9 maggio del premier Netanyahu e della sua presenza, proprio a fianco di Putin, alla celebrazione della fine della Seconda Guerra mondiale. Già la Siria, ove né la diplomazia, né paradossalmente la guerra sono state in grado di portare la pace. Da far comprendere il ricorso alla preghiera, alla intercessione di un Santo taumaturgo come San Nicola, promosse da papa Francesco per il 7 luglio a Bari ,accanto alle sue venerate reliquie. Preghiera per la pace nel Vicino e Medio Oriente da innalzare e invocare insieme con i patriarchi e capi delle Chiese orientali.