I martiri di Corea e Iraq sfidano la nostra fede
«Meglio morire mille volte che rinunciare alla fede in Cristo». Questa è la testimonianza che ci danno i 124 martiri coreani che saranno beatificati sabato, e questa è la testimonianza che ci danno i nostri fratelli iracheni, per i quali pregheremo domani in tutta Italia.
«Nonostante i loro corpi siano coperti di sangue, non si lamentano neanche. Rifiutano di rinunciare alla loro fede dicendo “l'insegnamento di Dio è molto chiaro, non possiamo disobbedire. Quindi dobbiamo disobbedire ai nostri genitori e al re”. Hanno detto che è un grande onore morire per Dio sotto la lama di un coltello». Così il governatore di Jeonju scrive nel 1791 nel rapporto per la Corte che ha decretato l’uccisione per decapitazione di Paolo Yun Ji-chung e di Giacomo Kwon Sang-yeon.
Paolo Yun è il primo dei 124 martiri coreani – uccisi tra la fine del XVIII e la prima metà del XIX secolo - che papa Francesco beatificherà sabato 16 agosto a Seul. Immersi come siamo in un clima di relativismo dove anche la nostra fede è spesso sottoposta a distinguo e accomodamenti, scorrendo le biografie dei nuovi beati non si può non rimanere colpiti dalla semplicità e dalla radicalità della testimonianza di questi primi cattolici coreani che hanno dovuto subire nell’arco di cento anni – e all’inizio della loro esperienza di Chiesa – una delle più feroci ondate di persecuzione nella storia.
Sentite ad esempio cosa scrive un vescovo cinese riportando ciò che dei cattolici coreani presenti al fatto gli avevano riferito a proposito del martirio di Mattia Choe In-Gil e altri compagni, il 28 giugno 1795: «Alla domanda degli accusatori “Adorate Gesù morto sulla croce?” hanno risposto con coraggio “Sì”. Alla richiesta di abiurare la fede hanno aggiunto “Siamo pronti a morire mille volte piuttosto che rinunciare alla fede nel nostro vero Salvatore, Gesù Cristo”. Mattia Choe è stato uno dei primi catechisti scelti da Pietro Yi Seung-hun per proclamare la fede. È stato un cattolico eccellente, che si è impegnato a diffondere la gloria di Dio con fede, zelo e devozione».
L’amore a Cristo più forte di ogni amore umano, come per il beato Giacomo Won Si-bo, martirizzato nel 1799, dopo essere stato per mesi picchiato, torturato, spostato di prigione in prigione. Nell’ultimo passaggio di prigione, fu seguito dalla moglie, dai figli, dagli amici, tutti in lacrime. Allora lui disse: «Per servire il Signore e salvare le anime non dobbiamo seguire gli istinti umani. Se sopportiamo tutti i dolori, saremo ricompensati dalla beatitudine d’incontrare il nostro Signore Gesù Cristo e la sua Santa Madre Maria. Se voi restate qui, il mio cuore s’indebolirà. Potrei non essere in grado di perseverare nella fede e commetterei una grave follia verso Dio. Per favore, tornate a casa».
Servire il Signore e salvare le anime. Il desiderio di diffondere la fede in Gesù, di salvare le anime, era così totale che un dato comune in tutte le loro biografie è l’atteggiamento nei confronti dei loro aguzzini e giudici: sempre spiegando la “dottrina” cristiana e invitandoli a seguire Gesù Cristo.
Leggendo queste biografie non si può non vedere subito un parallelo con quanto oggi tanti cristiani stanno vivendo, soggetti a un’altra persecuzione feroce, come stiamo vedendo in Iraq in questi giorni. Qui la situazione è ancora in evoluzione, i cristiani stanno scappando, ma il loro destino rimane appeso a un filo. Eppure, anche qui, in tutti questi anni (perché la persecuzione non è iniziata da poche settimane) abbiamo potuto vedere e ascoltare tante testimonianze di fede, una capacità semplice ed eccezionale allo stesso tempo di abbracciare la Croce, una serenità pur nella tragicità degli eventi. Una decisione radicale per Cristo.
Ciò non toglie nulla alla necessità di fare tutto il possibile perché vengano salvati dal genocidio e perché i loro aguzzini vengano fermati. Ma ascoltando attentamente queste testimonianze, comprendiamo che paradossalmente siamo più noi ad avere bisogno del loro aiuto: per imparare a vivere la stessa radicalità in Cristo, per avere la stessa coscienza di appartenere a Cristo, per essere pronti anche noi – nel martirio della vita quotidiana o nel momento in cui dovesse esserci chiesta una prova maggiore – a dire con gioia «Siamo pronti a morire mille volte piuttosto che rinunciare alla fede nel nostro vero Salvatore, Gesù Cristo».
E così domani, 15 agosto, la preghiera per i cristiani perseguitati diventa preghiera per la nostra conversione. Perché la massima solidarietà che possiamo dimostrare a questi nostri fratelli è la nostra vita totalmente affidata a Cristo.