I malati e l'inguaribile voglia di vivere
Mentre la politica si spacca sulla legge legata al fine vita medici e malati si confrontano in un convegno e raccontano storie d'amore e di vita.
In queste ultime settimane il dibattito intorno al fine vita è cresciuto impetuosamente, assumendo talvolta i toni di una vera e propria battaglia; fin qui, comunque, nulla da eccepire, data la drammaticità dell’argomento.
Ciò che preoccupa di più, è la grande quantità di ragionamenti astrusi e teorici sul tema, perlopiù lontani dalla realtà dei fatti concreti delle vite dei disabili e delle loro famiglie; così come per altre questioni, infatti, si finisce sui binari dell’ideologia, e questo non aiuta certo né il giudizio, né l’assunzione di decisioni equilibrate.
Ci si sfida tra fronti contrapposti –anche legittimamente- a suon di riferimenti costituzionali sulla legalità dell’interruzione della somministrazione di cibo e acqua, su cosa è trattamento sanitario e cosa no, così come sulla opportunità o meno di interrompere una vita considerata da tanti “non vita”; il risultato, però, è che le posizioni paiono irrigidirsi sempre di più e il confronto si trasforma in sterile scontro…
Un grande aiuto, per uscire da questa impasse, può venire dalla testimonianza di chi è concretamente impegnato in prima linea con queste problematiche, in qualità di disabile, familiare o medico: per capire se la vita è sempre degna di essere vissuta o no, aiuta di più guardare “i fatti”, e guardarli negli occhi con coraggio e onestà, piuttosto che fare lunghi discorsi o citare l’illuminato parere di scienziati, filosofi o costituzionalisti.
E’ quanto è accaduto, ad esempio, in occasione del convegno “L’inguaribile voglia di vivere - Vivo perché qualcuno mi ama”, organizzato dal Club dell’Inguaribile Voglia di Vivere (associazione che mutua il suo nome dal libro che il giornalista Massimo Pandolfi ha scritto alcuni anni fa) e svoltosi alcuni giorni fa a Salò. Senza tante discussioni o polemiche, che normalmente lasciano solo la bocca ancora più amara, si è dato spazio al racconto di esperienze “vincenti”, di quella positività che nemmeno la morte riesce a eliminare totalmente. Parole esagerate? Sembrerebbe; eppure, basterebbe conoscere Max Tresoldi per rendersi conto che non è così: considerato per dieci anni un tronco morto in stato vegetativo “permanente”, un giorno del 2001, facendo gridare a un mezzo miracolo, si è fatto da solo il segno della croce e poi ha abbracciato la sua mamma. Ora, sulla sua carrozzina, pur fra mille difficoltà, non cessa un attimo di mostrare a tutti la sua gioia di vivere.
Un nodo in gola di misteriosa gioia, analogamente, viene vedendo i sorrisi di Gian Piero Staccato, fatti con l’unico angolo di bocca rimasto mobile in un corpo ormai totalmente paralizzato, oppure ascoltando la lettura delle cose bellissime che scrive sulla vita. Cose bellissime e commoventi raccontate anche da Mirella Marongiu sul marito Carlo, che ha vissuto l’esperienza devastante della malattia (SLA) con una forza e serenità impensabili.
Sono tante, più di quante possiamo immaginarci, le testimonianze eroiche e commoventi dei familiari dei disabili (che costringono quasi a domandarsi: “ma come è possibile?”), insieme a quelle di tanti medici e operatori del settore.
Come quella di Fulvio de Nigris, per esempio, al quale l'immenso dolore per la perdita di un figlio 15enne, entrato imprevedibilmente in coma dopo un intervento chirurgico, ha dato la possibilità di scoprire che un bene è possibile anche là dove sembrava ci fosse solo del male. Già, come si fa a trovare del bene dalla morte di un figlio? Eppure la Casa dei Risvegli di Bologna è nata così, da un male, da un tremendo dolore, che ha fatto nascere una struttura che oggi dà assistenza e speranza a tanti.
Oppure quella di Giovanni Battista Guizzetti, medico e primario del don Orione di Bergamo, che da molti anni, quotidianamente, incrocia lo sguardo pieno di mistero di 24 persone in stato vegetativo; eppure, racconta, proprio questi sguardi hanno cambiato il suo sguardo: su di sé, sul proprio lavoro, sugli altri. E in queste persone fa esperienza, cioè tocca con mano e riconosce, un'umanità unica e irripetibile.
O ancora quella di Marco Maltoni, che secondo i criteri utilitaristici della medicina dovrebbe essere quotidianamente un medico sconfitto, dato che dirige due Hospice in Romagna, unità di cure palliative in cui, nel 99% dei casi, i malati terminali vanno a morire. Eppure Maltoni spiega a tutti come, nel rapporto con loro e con i loro familiari, può sempre nascere qualcosa di bello e grande, che non consente la guarigione, certo, ma dà vita ai giorni (quando tanto spesso i giorni dei sani sono “senza vita”…), dimostrando come la cura di una persona è sempre possibile, anche quando l'esistenza è agli sgoccioli.
E infine (ma se ne potrebbero raccontare tante altre) quella di Mario Melazzini, medico oncologo imprevedibilmente ammalatosi di SLA e altrettanto imprevedibilmente, attraverso la malattia (ma lui dice addirittura “grazie”…),“nato a nuova vita”. Fra mille impegni, pur affaticato e con voce flebile, Mario continua instancabilmente a lavorare per tutti gli ammalati di SLA e ad invitare ognuno affinché queste testimonianze siano portate fra la gente, in famiglia, nei luoghi di lavoro, dove abitualmente si vive e si opera, dove l'esistenza conduce, perché siano i fatti a parlare e non più le idee.
Insomma, in questo tempo drammatico e pur affascinante, in cui il fumo nero del nichilismo, ammantato da buonismo ipocrita, penetra nei cuori di tanti e propone la soluzione “igienica e indolore” dell’eutanasia, sono proprio queste persone a permetterci di riconoscere che la vita vale sempre e vale per essere data. Agli altri.
Perché la ragione, da sola, può comprenderlo astrattamente (ed è già un passo importante), ma per accogliere fino in fondo una sfida così ardua può non bastare: occorre incrociare lo sguardo, la carne sofferente, il sorriso o la misteriosa immobilità di una persona disabile e l’umanità grave eppur lieta dei loro familiari. E allora il cuore può spalancarsi ad una verità più piena.