AFRICA
I "giovani leoni" 20 anni dopo. Dove sono finiti?
Domani si vota in Uganda. Il mondo subsahariano freme fra incertezze e dittature. La prossima, colossale, crisi?
Attualità
17_02_2011
Una serie di confronti elettorali si sono conclusi o stanno per compiersi in Africa subsahariana, quasi ignorati dalla comunità internazionale del tutto concentrata su quanto sta accadendo in Nordafrica e in Medioriente. Meriterebbero più attenzione perché, nella maggior parte dei casi, si tratta di situazioni dal punto di vita politico affini a quelle che già hanno portato alla caduta di Ben Ali in Tunisia e di Hosni Mubarak in Egitto: regimi autoritari dissimulati, repressione politica, corruzione.
Quanto alle condizioni di vita, le popolazioni chiamate al voto nel 2011 in Africa subsahariana affrontano in genere difficoltà e problemi assai maggiori di quelli che stanno esasperando le folle urbane del Maghreb e degli stati mediorientali. Difatti, seppur nella distrazione generale, molte sono le capitali africane che nei giorni scorsi sono state paralizzate da manifestazioni di protesta per l’aumento dei prezzi. Quelle più animate si sono verificate in Senegal, Ghana, Tanzania, Gibuti e Isole Mauritius.
Le elezioni legislative e presidenziali del 18 febbraio in Uganda rappresentano uno degli appuntamenti più delicati: non per l’incertezza sul loro esito, poiché la rielezione del presidente uscente, Yoweri Museveni [nella foto], è data per certa, ma per le possibili reazioni che la sua vittoria e quella del suo schieramento potrebbero suscitare, specie nel caso in cui brogli e intimidazioni sull’elettorato superassero il livello di sopportazione della popolazione da troppo tempo delusa per essersi aspettata da Museveni cambiamenti radicali ancora da venire.
In verità molti nel mondo avevano scommesso su Yoweri Museveni quando, nel 1986, conquistando militarmente la capitale Kampala, aveva messo fine a un drammatico capitolo della storia ugandese, segnato dalle devastanti conseguenze di alcune delle più sanguinarie e deliranti dittature africane: quelle di Amin Dada, Milton Obote e Tito Okello. Ancora nel 1997 la fiducia in Museveni non era svanita. In un dossier pubblicato quell’anno dalla Banca Mondiale, in cui si annunciava con enfasi la fine dei tempi bui in Africa e finalmente l’avvento di un “rinascimento africano”, il presidente ugandese compariva tra i leader di nuova generazione capaci di realizzare performance economiche tali da eclissare quelle delle “tigri asiatiche”: furono soprannominati “giovani leoni” e presentati come l’avanguardia di una sicura svolta in senso democratico, in grado di coinvolgere tutto il continente.
Dopo 25 anni l’Uganda resta uno dei Paesi più poveri del mondo (al 143° posto nell’Indice di sviluppo umano) e Museveni, per rimanere al potere e dissimulare il proprio regime autoritario, dapprima si è inventato il “no party system”, sostenendo che il paese non era ancora maturo per la democrazia. Poi, nel 2006, ha ammesso il multipartitismo, ma ha ottenuto in cambio che fosse eliminato dalla costituzione l’articolo che limitava a due i mandati presidenziali per persona. Il 18 febbraio infatti Museveni si candida per la quarta volta.
Vale la pena di ricordare chi erano gli altri due “leoni” su cui soprattutto si fondava l’ottimismo della Banca Mondiale e di molti osservatori internazionali.
Uno era Melles Zenawi, primo ministro dell’Etiopia dal 1991, anno del colpo di stato che costrinse all’esilio il dittatore Haile Mariam Menghistu. L’apertura al multipartitismo di Zenawi risale al 2000. Diede i suoi frutti alle legislative e amministrative del 2005 con gli ottimi risultati dell’opposizione che, malgrado brogli e irregolarità in favore del partito di governo, arrivò a conquistare persino la capitale Addis Abeba. Zenawi rispose arrestando centinaia di candidati dell’opposizione eletti, incluso il sindaco della capitale che non assunse mai la carica. Quindi represse le proteste popolari arrestando migliaia di sostenitori dei candidati di minoranza. Le vittime degli scontri tra dimostranti e forze dell’ordine si contarono a decine.
Il terzo “leone africano” era Isayas Afeworki, leader del movimento secessionista eritreo e presidente dell’Eritrea dal 1993, anno dell’indipendenza dall’Etiopia ottenuta con un referendum popolare dopo una lunga guerra. In Eritrea non ci sono neanche le apparenze di un sistema democratico: da allora il paese non è mai andato al voto e il regime di Afeworki è ritenuto uno dei più repressivi e autoritari del pianeta.