Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
IL LIBRO

I diari dei soldati italiani e la fedeltà alla coscienza

I diari di guerra di De Carli e Cattaneo costituiscono un interessante contributo alla comprensione di quanto accadde nell’animo di molti militari italiani durante la Seconda Guerra Mondiale. Ricordano che è stato possibile non piegarsi, rivendicando sempre, in nome della propria coscienza, le ragioni del dovere e della giustizia.

Cultura 24_02_2018

Dalla fine della seconda guerra mondiale a oggi sono stati pubblicati, solo in Italia, centinaia di libri di memorie belliche scritte da chi, a diverso titolo e grado, aveva preso parte attivamente agli eventi bellici sui diversi fronti.

Ciò nonostante i diari di guerra di Giuseppe De Carli ed Enrico Cattaneo, pubblicati nell’opera “Io, soldato italiano nel conflitto mondiale” (edizioni Ares) costituiscono ancor oggi un interessante e dettagliato contributo alla comprensione di quanto accadde nell’animo di molti militari italiani, di quel conflitto e degli eventi intercorsi tra l’8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945, tra l’Armistizio e la liberazione completa dell’Italia da parte degli alleati. Il capitano De Carli, bersagliere schierato in Sicilia quando il 10 luglio sbarcano gli alleati, viene ferito e in seguito fatto prigioniero dagli americani e poi trasferito in Algeria in un campo di prigionia britannico. I diari, trovati dai figli dopo la morte di entrambi i genitori, raccontano lo smarrimento dell’ufficiale che vede la Patria tradire l’alleato tedesco per poi muovergli guerra al fianco degli ex-nemici alleati.

Il testo tradisce le incertezze per il futuro, l’amarezza per la sorte di un’Italia in balìa della guerra civile, le titubanze nell’accettare la proposta degli alleati di arruolarsi nel “nuovo esercito“ belligerante al fianco degli anglo-americani per non far correre rischi di rappresaglie ai suoi famigliari rimasti nel Nord sotto la Repubblica di Salò. “Nelle terre italiane occupate dagli anglo-americani molteplici sono le condizioni in cui sono messi e si trovano i militari. Mentre nell’Italia meridionale, per esempio, l’Esercito italiano è armato e gli appartenenti sono liberi e retribuiti, i militari già appartenenti alle unità che agirono in Sicilia (regione occupata prima dell’Armistizio dell’8 settembre) sono tutti prigionieri di guerra: in gran parte evacuati dall’isola per campi di concentramento dell’Africa o dell’America, in parte ancora riuniti in Campi di concentramento siciliani. 

Agli ufficiali italiani dei Campi di concentramento della Sicilia pare vengano proposte tre vie possibili: o dichiararsi disposti, col permesso degli Alleati, ad impugnare le armi contro i tedeschi, o dichiararsi pronti a collaborare con gli Alleati in Compagnie di lavoratori, o essere internati quali prigionieri nei Campi di concentramento africani o americani”. Diari che riportano il dolore per la lontananza dai propri cari e per l’incertezza circa la loro sorte ma che riferiscono anche come le diverse anime di un’Italia a brandelli e in guerra con se stessa si riflettano anche nei campi di prigionia.

Quasi una saga il racconto che emerge dai diari di Enrico Cattaneo, 19enne dislocato in Grecia al momento dell’Armistizio, ricattato invano dai tedeschi affinché si arruoli nell’esercito di Salò e quindi deportato in Russia come lavoratore con un viaggio in «carro bestiame» durato un mese: “Faceva un freddo pungente che non ci permetteva di dormire; al mattino entrò la guardia con un caporale delle SS, ci fecero scendere in cortile e ci allinearono davanti al magazzino dove c’era un palazzo di cinque  piani. Il sole in quel cortile si vedeva solo verso mezzogiorno, quasi tutti noi eravamo senza scarpe e sul terreno anche se non c’era la neve c’erano due dita di brina; senza mangiare siamo rimasti lì fino all’imbrunire, poi ci portarono di nuovo nel magazzino sempre senza mangiare. Durante la notte c’era chi piangeva, chi imprecava, chi pregava; anche quella notte in qualche modo passò. Al mattino si ripeté lo stesso rito; sempre in cortile a piedi nudi, con la brina che ci bruciava la pelle e i piedi che si erano gonfiati; dovevamo stare in piedi e nessuno doveva uscire dalla fila altrimenti erano botte, si urinava sui piedi; però c’era qualche cosa di diverso: in fondo al cortile era stata messa una marmitta da campo da cui emanava un profumo di zuppa alla tedesca. Verso mezzogiorno arriva un sergente delle SS e ci disse in italiano: «L’esercito italiano ha bisogno di voi! Basta che firmiate il vostro rimpatrio e potrete mangiare, sarete vestiti, avrete le scarpe e partirete subito per l’Italia!».

Nessuno fece una piega, quello si arrabbiò e ci mandarono di nuovo nel magazzino; ma la fame era forte e alcuni si misero a discutere sul perché si dovesse soffrire in quel modo. Prese la parola il tenente medico e ci disse: «Qui nessuno ha degli obblighi con gli altri, ognuno è libero perché caduto Mussolini è caduta anche la dittatura fascista e ognuno di noi è libero di agire come vuole!», ancora il tenente disse: «A questi tedeschi non credo; e sono convinto che anche se firmeremo non ci porteranno in Italia, questo è il mio modo di pensare!». Naturalmente c’era anche chi non era d’accordo con lui, io però la pensavo come il tenente; ma la fame cominciava a non farci più ragionare”. Neppure la disfatta nazista consentì però il ritorno a casa di Cattaneo, poiché i russi lo credettero tedesco e quindi ne prolungarono la prigionia costringendolo a lavorare nei kolchoz e nelle fabbriche russe.

Le vicende dei due militari narrate nei diari, pur nella loro diversità, hanno molto in comune e offrono pure spunti di riflessione sull’Italia di oggi, pressata da interessi stranieri sempre più invadenti anche se per fortuna al di fuori di logiche belliche. Come scrive Edoardo Bressan nell’introduzione all’opera “emergono in queste pagine due vite accomunate da un destino drammatico e dal dolore per i compagni che nemmeno sono riusciti a rivedere i propri cari. De Carli e Cattaneo ricordano a tutti che è stato possibile non piegarsi, senza aspettare la buona sorte ma rivendicando sempre, in nome della propria coscienza, le ragioni del dovere e della giustizia”.