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ISTAT

I dati sui matrimoni e la fede in lockdown

Nei primi sette mesi del 2020 si sono celebrati in Italia solo 34.059 matrimoni (contro i 101.461 nello stesso periodo del 2019). Il crollo è attribuibile in massima parte al Covid, ma è indicativo il fatto che i matrimoni religiosi siano stati appena il 12% del totale. Un fatto che si accompagna a due tendenze secolari, una riguardante i “civilisti” e l’altra chi, pur senza fede, vuole comunque sposarsi in chiesa.

- MATRIMONIO SOLUZIONE ALLA DENATALITÀ di G. Guzzo

Famiglia 29_01_2021

Venerdì 15 gennaio, in occasione del convegno «Incremento demografico e sviluppo economico (effetto Covid sulla natalità)», il professor Gian Carlo Blangiardo, presidente dell’Istat, ha anticipato alcuni dati, ancora provvisori, non solo sulla denatalità italiana, ma anche sullo stato di salute dell’istituto matrimoniale nella nostra penisola. Tra gennaio e luglio 2020 si sono celebrati in Italia 34.059 matrimoni. Nello stesso periodo del 2019 i matrimoni furono 101.461. Il calo a picco è dovuto ovviamente in massima parte al Covid. Però ciò non toglie che la curva negli anni è in costante discesa (nel 2018 i matrimoni furono 107.990).

Ma Blangiardo ha illustrato, tra gli altri, anche un ulteriore dato significativo. Tra gennaio e luglio 2020 i matrimoni religiosi sono stati 4.141. Nello stesso periodo dell’anno precedente furono 47.025. E fin qui qualcuno potrebbe dire: dato che nel 2020 meno persone si sono sposate è ovvio che anche i matrimoni religiosi sono calati. Ma il calo ha riguardato maggiormente questi ultimi rispetto ai matrimoni civili. Infatti quei 4.141 matrimoni religiosi corrispondono al 12% del totale. Nel 2019 i matrimoni religiosi furono il 46,5%. Dunque calano sia i matrimoni civili che quelli religiosi, ma in modo assai più marcato questi ultimi.

Lasciamo ai sociologi di professione la spiegazione scientifica di questa differente dinamica discendente. Noi, però, ci azzardiamo ad abbozzare una nostra interpretazione. Forse l’impossibilità, causa Covid, di invitare molte persone e di fare il pranzo di nozze al ristorante o tramite catering, ha inciso maggiormente sui matrimoni religiosi che su quelli civili. Ma per quale motivo? Forse chi vuole sposarsi in chiesa, anche lungi da motivazioni religiose, spesso vuole il matrimonio perfetto: pranzo, tanti amici assembrati, etc. e soprattutto la chiesa perché senza questa sarebbe come avere l’albero di Natale in casa senza palline. Dunque, spesso, chi sceglie il rito in chiesa sceglie un tipo di festeggiamento tradizionale, incompatibile con le normative anti-Covid. Detto in altri termini, il festeggiamento tradizionale non può essere disgiunto dalla celebrazione in chiesa: vietato il primo per l’eccessivo numero di invitati e per il pranzo viene meno anche la seconda. Quindi, non potendo celebrare il matrimonio secondo i propri desideri, la coppia rinuncia a tutto il pacchetto, chiesa compresa; non sceglie di certo il rito civile e rimanda il tutto a data da destinarsi, quando l’immunità di gregge sbloccherà anche il matrimonio con mille invitati.

All’opposto, viene da domandarsi: perché, tra chi sceglie il rito civile (l’88% del totale), le limitazioni sul numero di invitati e sul pranzo non hanno inciso così profondamente? Forse perché tra le fila dei «civilisti» è presente un nutrito gruppo di nubendi, in percentuale sensibilmente maggiore rispetto a chi sceglie il rito religioso, per i quali invitati e pranzo non contano più di tanto. Parrebbe quindi esserci una buona quota tra coloro che scelgono il sindaco rispetto al sacerdote più propensa a rinunciare ad invitare tutti che a non sposarsi. E in tal senso si potrebbe forse anche scorgere in questa decisione di sposarsi adottando la soluzione «minimo sindacale» una propensione da parte di alcuni «civilisti» ad assegnare minor valore al matrimonio, inteso come mera formalità da esplicarsi dopo anni di convivenza. Dunque, poca o tanta gente, o che si mangi o non si mangi al ristorante poco importa. Tale indifferenza verso questi aspetti potrebbe essere rivelatrice non della coscienza di cosa sia essenziale nel giorno della celebrazione del matrimonio e di cosa sia invece accessorio, ma del giudizio secondo il quale il matrimonio stesso non sia essenziale. Quindi chi se ne importa degli invitati e del pranzo?

Di contro, tra coloro che scelgono il rito in chiesa c’è un folto gruppo che crede che i festeggiamenti con tanti amici e parenti siano il cuore del giorno delle nozze. Nel primo caso non si dà importanza al matrimonio in sé, nel secondo caso si fraintende il significato profondo del matrimonio e quindi, di conseguenza, si assegnano a certi aspetti accessori del giorno delle nozze un ruolo essenziale.

Ma lasciamo da parte la valutazione e le relative riflessioni sui dati dei matrimoni nei primi sette mesi del 2020, perché il Covid, in questo caso come in moltissimi altri, è una variabile che altera in modo assai significativo la corretta interpretazione della realtà dei fatti. Al di là di questo annus horribilis rimane però il trend: meno matrimoni e, nella flessione generale, diminuiscono soprattutto i matrimoni con rito religioso, tanto che nel 2018 per la prima volta venne registrato il sorpasso dei matrimoni civili sui religiosi (50,1%).

Al netto di quella parte di incremento di matrimoni civili da addebitarsi a seconde nozze, il sorpasso del rito civile su quello religioso è spiegabile indicando le solite motivazioni: secolarismo, relativismo, vacanza della Chiesa gerarchica sui temi che contano, etc. In breve, è da decenni che la fede è in lockdown. Sia la fede dei sacerdoti/vescovi che dei laici, i quali da tempo hanno acquisito, anche a causa della solerzia di molti pastori, l’immunità di gregge alla sana dottrina. In sintesi: chi si sposa in comune è ovvio che non creda. E non confondiamo, please, il sentimento religioso vagamente cattolico con la fede cattolica. Chi crede vuole solo sposarsi in chiesa perché vuole che il suo «Sì» sia anche sacramento. Dunque meno fede, meno matrimoni religiosi.

Però non vogliamo mettere qui a tema le cause, bensì gli effetti dell’incremento dei matrimoni civili. Non giriamoci tanto intorno: nella maggior parte dei casi, chi difende la vita dal suo spuntare al suo tramonto, la famiglia e il matrimonio, la sana educazione alla sessualità, etc. è un credente. E un credente di quelli che non solo vanno a Messa la Domenica, ma che prega ogni giorno, si informa e si forma, spera e trema pensando all’Aldilà, fa scelte dannosissime secondo il mondo, ma vincenti agli occhi di Cristo e quindi non scende a compromessi, fa e offre sacrifici per amore di Dio e del prossimo. Chi non crede, nella maggior parte dei casi, sposandosi non escluderà di divorziare ed educherà i figli, volenti o nolenti, ad una certa rilassatezza nei costumi sessuali, all’etica del «se fa stare bene te allora va bene», alla libertà individualista, all’inclusività piallatrice delle differenze naturali, alla visione immanentista dell’esistenza. E, se ci fosse anche una trascendenza, sicuramente lì troveremmo solo un Dio buono che accoglie tutti. Certo, ci sono eccezioni, ma sono appunto eccezioni.

Quindi l’incremento dei matrimoni civili è una cartina tornasole di ciò che ci aspetta in futuro, prelude a un trend laicista in tutti gli ambiti eticamente sensibili. Più vite che si spegneranno nel ventre materno e più vite che si accenderanno nelle provette, più pilloline per non rimanere incinta, più lavoro per gli avvocati divorzisti, più spine staccate al nonno moribondo, più relazioni gaie. Più buio.