Matrimonio: unico rimedio efficace alla denatalità
Il rimedio più efficace all'inverno demografico, più di tutte le forme di sostegno economico già sperimentate senza troppo successo, è: il matrimonio. Due ricercatori di Hong Kong hanno confermato quel che si sapeva da sempre: ad ogni punto percentuale in più di tasso di matrimonio corrisponde un aumento demografico direttamente proporzionale.
Qual è il rimedio più efficace alla denatalità? A seguire i dibattiti politici in Italia come in Europa, sembra che le ricette contro l’inverno demografico siano le seguenti: l’immigrazione, i congedi parentali, la disponibilità di asili nido, le «politiche di genere» per l’occupazione femminile, i bonus bebè. Tutto bello. Peccato che non ci sia un Paese europeo – neppure uno – che, avvalendosi di tali soluzioni, possa oggi vantare un livello di fertilità pari o superiore a quel 2,1 figli per donna, noto come tasso di sostituzione e fondamentale per assicurare il futuro ad una comunità. Persino la Francia, che fino a pochi anni fa costituiva una felice eccezione, da un paio di anni è scesa a 1,84 figli per donna e per il momento non dà segnali di miglioramento.
Che fare, allora, per rilanciare la natalità? In Asia, dove pure il guaio è meno serio che da noi, stanno iniziando a chiederselo. E, meno soffocati dalle morse del politicamente corretto, offrono soluzioni interessanti. Un esempio viene da un recente intervento pubblicato sul South China Morning Post a firma di Mengni Chen, ricercatrice formatasi all'Università di Hong Kong e oggi all'Università di Colonia, e Paul Yip, studioso dell’Università di Hong Kong nonché segretario dell’Asian Population Association. I due hanno iniziato analizzando la situazione di cinque distinti contesti: Hong Kong, Taiwan, Giappone, Corea del Sud e Singapore. Fatto questo, si son messi alla ricerca di quale sia il gruppo di donne più influente nell'andamento del tasso di fertilità totale, quello in grado cioè di incidere su quello che questi studiosi hanno chiamato - mutuando il concetto economico di elasticità della domanda elaborato da Alfred Marshall (1842-1924) - «elasticità della fertilità».
Ebbene, ciò che Chen e Yip hanno visto è che la più significativa «elasticità della fertilità» è quella delle giovani donne età compresa tra i 25 e i 29 anni ed è collegata al tasso di nuzialità. Più precisamente, si è riscontrato come, per ogni crescita dell'1% del tasso di matrimonio tra queste giovani donne, aumenti pure il tasso di fertilità. Di quanto? Dello 0,3% a Hong Kong, in Giappone, a Taiwan e Singapore, e di circa lo 0,24% in Corea del Sud, dove tra l’altro fra il luglio e il settembre 2020 si è toccato il record negativo di fertilità, un raggelante 0,88 figli per donna.
«Se i governi riescono rimuovere gli ostacoli alle nozze, aumentando così il tasso di matrimonio», hanno quindi osservato Chen e Yip, «ci sarebbe un aumento dei tassi di fertilità totali». Il problema è che anche nei contesti asiatici, da qualche anno a questa parte, stanno accadendo due cose: l’età al primo matrimonio è in aumento e il tasso di divorzi pure. Inoltre, c’è la consapevolezza che le nozze rispecchiano una scelta personale, difficile da promuovere oltre un certo limite. Eppure i numeri sono numeri e, direbbero i latini, contra factum non valet argumentum. Tanto più che la scoperta di Chen e Yip non è una novità assoluta.
Già un anno e mezzo fa, infatti, Thein Swe, ministro della Birmania - Paese asiatico a maggioranza buddista e perciò non tacciabile di cattolicesimo -, dichiarava sul Myanmar Times che uno dei motivi del calo del tasso di natalità nel suo Paese è «il crescente numero di donne non sposate». Con riferimento alla situazione statunitense, pure Lyman Stone dell'Institute for Family Studies ha definito «improbabile che qualsiasi politica pro natalità che non influisca in qualche modo sulle tendenze del matrimonio – per quanto generosa possa essere – possa aumentare la fertilità a lungo termine». Analoghe considerazioni valgono per l’Italia.
Basti pensare a quanto nel novembre 2018, sul Foglio, evidenziava il demografo Roberto Volpi rivolgendosi ai «begli spiriti che hanno disquisito contro il matrimonio» e che «sono pregati di prendere atto che la fine del matrimonio segna anche il precipitare delle nascite». Insomma, che senza scommettere sul matrimonio la sfida contro l’inverno demografico sia persa non è neppure più una ipotesi. È una triste certezza. Ma vallo a spiegare ai tanti sostenitori delle «politiche di genere» e dei congedi parentali, pannicelli caldi – al massimo – contro una denatalità che esige, per essere sconfitta, ben altri antidoti.
Il fatto è che una società occidentale che per decenni ha culturalmente e giuridicamente martoriato l’istituto matrimoniale, lo stesso che perfino gli studiosi asiatici ora indicano come indispensabile, adesso ha le sue difficoltà a tornare sui suoi passi. Eppure prima o poi dovrà decidersi a farlo, perché la realtà demografica, del politicamente corretto, se ne frega.