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A DUE ANNI DALL'ESODO

I cristiani dell'Iraq ci chiedono ancora aiuto

Costretti a fuggire in poche ore e a rifugiarsi nel Kurdistan iracheno. A due anni sall'esodo di 125 mila cristiani iracheni il loro grido di aiuto ci interroga ancora. Le tende hanno lasciato il posto ai prefabbricati, ma sono ancora esuli. 

IL PATRIARCA SAKO: 6 COSE DA FARE DOPO LA SCONFITTA DELL'ISIS  di L. R. Sako

Esteri 07_08_2016
Le tende dei rifugiati cristiani a Erbil con il segno della Croce

Costretti a fuggire in poche ore, senza potersi portare dietro praticamente nulla. Costretti a lasciare anche quella striscia di terra che - nelle fantasie di chi, a tavolino, giocava a spartirsi le spoglie dell'Iraq - sarebbe dovuta diventare la “riserva” dei cristiani. Sono passati due anni dalla notte tra il 6 e 7 agosto 2014, quella durante la quale 125 mila cristiani iracheni dovettero lasciare la Piana di Ninive dopo che le loro case vennero marchiate dalle milizie dell'Isis con la lettera araba nun, l'iniziale dei nazareni. Estrema tragedia giunta ad appena un mese dal primo esodo, quello da Mosul, la grande città del nord dell'Iraq, abbandonata nelle mani del sedicente Califfato.

Sono passati due anni e qual è oggi la situazione? Gli oltre centomila profughi cristiani tuttora esuli a Erbil, nel Kurdistan iracheno, dicono in maniera quanto mai eloquente la gravità della situazione. Le tende hanno lasciato il posto ai prefabbricati, l'aiuto dei cristiani di tutto il mondo ha premesso la costruzione di qualche chiesa e qualche struttura per un'assistenza più dignitosa. Ma ventiquattro mesi dopo, comunque, chi è stato cacciato dalla Piana di Ninive continua a vivere da esule. A ricordarlo nelle prossime settimane al Meeting di Rimini sarà opportunamente l'Aiuto alla Chiesa che Soffre attraverso una mostra intitolata “La vostra resistenza è martirio, rugiada che feconda” e la testimonianza di padre Rebwar Basa, un religioso che proverà ancora una volta a scuoterci raccontando come si vive ancora oggi da esuli a Erbil.

Del resto quello di oggi è un secondo anniversario con ben poche illusioni per i profughi di Ninive. Perché l'Isis sarà anche stato militarmente indebolito in Siria e in Iraq - come ci rassicurano tutti quotidianamente; ma non sono state per nulla intaccate le contraddizioni che lo hanno lasciato crescere. E così - come denunciato in queste ore dall'Unhcr - può tranquillamente capitare che nel distretto di Hawiga un centinaio di miliziani con la bandiera nera intercetti circa 3mila sfollati che cercavano di lasciare le aree dove si combatte per raggiungere Kirkuk, la città nelle mani dei curdi. Trasformandoli in altrettanti scudi umani da utilizzare come propria arma per difendere Mosul.

Perché - allora - dopo due anni e tante parole della comunità internazionale, la situazione resta comunque questa? A spiegarlo - con la consueta chiarezza - è il patriarca caldeo Louis Raphael Sako, in un messaggio inviato alla sua comunità proprio in occasione di questo doloroso anniversario. 

L'Isis rimane al suo posto perché tanti soggetti nella regione (Arabia Saudita, Iran, le stesse scelte politiche di Washington) continuano ad alimentare il fuoco delle divisioni settarie in Iraq. L'ascesa del Califfato è stata parallela al naufragio delle istituzioni politiche a Baghdad; e il vento che continua a soffiare in Iraq non è affatto quello di una ricostruzione che garantisca i diritti di tutti. Gli stessi movimenti di piazza contro l'incapacità di un governo e un Parlamento a fare fronte all'ondata infinita di attentati che da tempo ormai scuote la capitale irachena, hanno il volto dell'estremismo sciita di Moqtada al Sadr, che non è certo un'alternativa molto rassicurante per i cristiani.

«Terrorista non è solo l'individuo che esegue il “crimine”», denuncia il patriarca Sako, «ma anche la persona che predica, pianifica e finanzia questa distruttiva ideologia. Siamo di fronte a un grave “inquinamento dei cervelli”, che minaccia l'equilibrio intellettuale, religioso ed etnico che hanno perdurato in questa regione per secoli». E se non si fa i conti con questo problema - spiega in sostanza presule - non ci sono avanzate militari che tengano. Certo, resta urgente che Mosul venga liberata dall'Isis, come lo stesso presule auspica; ma deve essere una liberazione vera, non un prolungamento dell'agonia dell'Iraq sotto altre forme.

C'è una “bancarotta dello Stato” con cui bisogna fare i conti oggi a Baghdad, dice senza giri di parole Sako. Bancarotta che «non significa solo casse vuote, ma anche la perdita di persone capaci e competenti e che hanno fiducia nella loro patria». Invoca «un nuovo contratto sociale», il patriarca, una nuova «costituzione» che «affronti le cause della crisi, lontano dalle prospettive dei partiti settari, nazionali, religiosi, politici».

É' la strada indicata tante volte da questo patriarca coraggioso, che sa bene che una piccola isola per i cristiani in una Piana di Ninive restituita non sarebbe affatto la fine delle loro sofferenze. Quelle stesse sofferenze che continuano a spingere tante famiglie cristiane irachene a cercare la via dell'emigrazione verso l'Europa, gli Stati Uniti o l'Australia: «Comprendiamo i loro timori», scrive Sako, «e condividiamo le loro preoccupazioni sul futuro a causa dell'estremismo religioso; i trasferimenti forzati; il cambio demografico; il sequestro di case e proprietà dei cristiani; insieme all'ingiustizia legale nel prendere decisioni, come pure l'ignorare la loro presenza».

Ma la fuga non è una strada, insiste. Come non lo è cedere al settarismo, dando vita a proprie milizie cristiane. «Preghiera e unità sono le nostre armi davanti all'ingiustizia», ripete il patriarca. Armi che sta ai cristiani di tutto il mondo oggi rendere più potenti, provando perlomeno a riaccendere i riflettori su questo martirio dimenticato molto in fretta.

 IL PATRIARCA SAKO: 6 COSE DA FARE DOPO LA SCONFITTA DELL'ISIS  di  Louis Raphael Sako