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AGENDA PER IL 2011

I cinque rischi per la libertà religiosa

Nel discorso del Papa al Corpo Diplomatico c'è il programma da realizzare per chi, come me, sarà chiamato a lavorare nelle organizzazioni internazionali.

Attualità 10_01_2011

Dal Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace del 2011, già ampiamente commentato su La Bussola Quotidiana, all’annuncio di un nuovo incontro interreligioso ad Assisi, il Papa ha già indicato la sua intenzione di fare del 2011 un anno internazionale della libertà religiosa. Una nuova importante tappa di questo annuncio – con cui si entra nel vivo dei problemi – è costituita dall’annuale discorso al Corpo Diplomatico del 10 gennaio, ci cui Andrea Tornielli offre oggi su La Bussola Quotidiana una presentazione e di cui vorrei proporre un commento.

Mentre mi accingo ad assumere questa settimana le funzioni di rappresentante dell’OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa) per la lotta contro la discriminazione e l’intolleranza contro i cristiani, sono molto grato al Papa per avere indicato anche alle organizzazioni internazionali – tra cui dunque l’OSCE, definita nel recente rapporto annuale dell’Aiuto alla Chiesa che Soffre sulla libertà religiosa come l’organizzazione più importante al mondo dopo le Nazioni Unite nel campo dei diritti umani – un’agenda precisa. Nei limiti delle mie possibilità e capacità, cercherò di fare mia questa agenda.  

Il Papa ha indicato cinque rischi per la libertà religiosa. Il primo riguarda un possibile equivoco su che cosa la libertà religiosa esattamente sia. Richiamando il Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2011, il Papa allude a discussioni che esistono anche all’interno della Chiesa Cattolica sulla corretta interpretazione della dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis humanae del Concilio Ecumenico Vaticano II, ripetutamente richiamata anche nel discorso del 10 gennaio. Se n’è avuto un esempio nelle reazioni all’annuncio del nuovo incontro di Assisi. La libertà religiosa è stata spesso confusa con il relativismo, cioè con la tesi che non esista una verità religiosa e che la scelta di una religione o di un’altra sia più o meno indifferente. Mentre, come Benedetto XVI ha richiamato nell’enciclica Caritas in veritate al n. 55, «la libertà religiosa non significa indifferentismo religioso e non comporta che tutte le religioni siano uguali».

Si tratta di una questione soltanto teorica? No di certo. In effetti, il timore che la libertà di religione porti con sé un relativismo e una sottovalutazione del ruolo delle religioni tipici dell’Occidente moderno è la prima ragione per cui Paesi con una forte identità religiosa islamica, indù o buddhista resistono all’applicazione delle convenzioni internazionali in materia di libertà religiosa. Essi temono che accettare la libertà religiosa significhi necessariamente cedere al relativismo e all’indifferentismo tipici di una certa cultura occidentale moderna. Vanno convinti che non è così, e che libertà religiosa e denuncia di quella che il Papa chiama dittatura del relativismo possono e devono coesistere, come illustra appunto il Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2011.

Il secondo rischio è quello del tentativo dell’islam ultra-fondamentalista di porre fine all’esistenza bimillenaria di comunità cristiane nel Vicino Oriente, ricorrendo anche al terrorismo. In alcuni Paesi il tentativo di una pulizia etnica che elimini definitivamente i cristiani è ormai del tutto evidente. I governi, è vero, prendono le distanze dagli ultra-fondamentalisti. Ma il tempo delle parole non seguite dai fatti è scaduto. Occorrono, afferma, il Papa, «misure efficaci per la protezione delle minoranze religiose».

Né si tratta solo di un problema di polizia, la cui azione in Paesi come l’Egitto è peraltro molto importante e deve compiere un salto di qualità se vuole raggiungere risultati non fittizi. Si tratta anche delle leggi, che in molti Paesi a maggioranza islamica riducono la libertà religiosa alla sola libertà di culto. I cristiani – non ovunque – possono liberamente celebrare i loro riti chiusi in chiesa, ma dalle chiese e dalle sacrestie non possono uscire per annunciare il Vangelo. Se poi qualcuno si converte dall’islam al cristianesimo, è punito dalle leggi contro l’apostasia e – dove queste leggi sono state abrogate su pressione occidentale – da norme contro la blasfemia, che spesso sono solo leggi contro le conversioni mascherate. Il Papa ricorda «che la libertà religiosa non è pienamente applicata là dove è garantita solamente la libertà di culto, per di più con delle limitazioni». In modo molto esplicito, afferma pure che «tra le norme che ledono il diritto delle persone alla libertà religiosa, una menzione particolare dev’essere fatta della legge contro la blasfemia in Pakistan: incoraggio di nuovo le Autorità di quel Paese a compiere gli sforzi necessari per abrogarla, tanto più che è evidente che essa serve da pretesto per provocare ingiustizie e violenze contro le minoranze religiose».

Il terzo rischio – spesso poco conosciuto o sottovalutato – è costituito dalle aggressioni nei confronti dei cristiani da parte di «fondamentalisti» indù o buddhisti, che identificano l’identità nazionale dei loro Paesi con un’identità religiosa, difesa in modi talora violenti contro il cristianesimo. Sono quelle che il Papa chiama «situazioni preoccupanti, talvolta con atti di violenza, [che] possono essere menzionate nel Sud e nel Sud-Est del continente asiatico, in Paesi che hanno peraltro una tradizione di rapporti sociali pacifici. Il peso particolare di una determinata religione in una nazione non dovrebbe mai implicare che i cittadini appartenenti ad un’altra confessione siano discriminati nella vita sociale o, peggio ancora, che sia tollerata la violenza contro di essi».

Il quarto rischio è costituito dal fatto che, anche se molti vorrebbero dimenticarlo, ci sono ancora regimi comunisti. «In diversi Paesi – afferma il Papa con evidenti allusioni a questi regimi – la Costituzione riconosce una certa libertà religiosa, ma, di fatto, la vita delle comunità religiose è resa difficile e talvolta anche precaria (cfr Conc. Vat. II, Dich. Dignitatis humanae, 15), perché l’ordinamento giuridico o sociale si ispira a sistemi filosofici e politici che postulano uno stretto controllo, per non dire un monopolio, dello Stato sulla società». Il pensiero del Papa, così, «si volge di nuovo verso la comunità cattolica della Cina continentale e i suoi Pastori, che vivono un momento di difficoltà e di prova». Né si tratta dell’unico caso, se solo pensiamo per esempio al dramma ampiamente dimenticato dei cristiani nella Corea del Nord.

Il quinto rischio è rappresentato da quella che il Papa nel discorso alla Curia Romana del 20 dicembre 2010, facendo sua un’espressione coniata dall’illustre giurista ebreo statunitense di origine sudafricana Joseph Weiler, ha chiamato la «cristianofobia» dell’Occidente. «Spostando il nostro sguardo dall’Oriente all’Occidente», ha detto il Papa, «ci troviamo di fronte ad altri tipi di minacce contro il pieno esercizio della libertà religiosa. Penso, in primo luogo, a Paesi nei quali si accorda una grande importanza al pluralismo e alla tolleranza, ma dove la religione subisce una crescente emarginazione. Si tende a considerare la religione, ogni religione, come un fattore senza importanza, estraneo alla società moderna o addirittura destabilizzante, e si cerca con diversi mezzi di impedirne ogni influenza nella vita sociale. Si arriva così a pretendere che i cristiani agiscano nell’esercizio della loro professione senza riferimento alle loro convinzioni religiose e morali, e persino in contraddizione con esse, come, per esempio, là dove sono in vigore leggi che limitano il diritto all’obiezione di coscienza degli operatori sanitari o di certi operatori del diritto», particolarmente in tema di «aborto».

«Un’altra manifestazione dell’emarginazione della religione e, in particolare, del cristianesimo – ha aggiunto il Papa – consiste nel bandire dalla vita pubblica feste e simboli religiosi, in nome del rispetto nei confronti di quanti appartengono ad altre religioni o di coloro che non credono. Agendo così, non soltanto si limita il diritto dei credenti all’espressione pubblica della loro fede, ma si tagliano anche radici culturali che alimentano l’identità profonda e la coesione sociale di numerose nazioni». Anche qui il Papa non si è limitato ai principi generali, ma ha fatto un  preciso riferimento alla sentenza Lautsi della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che vorrebbe vietare l’esposizione del crocefisso nelle scuole italiane, lodando chi si batte perché siano rimossi gli infausti e ingiusti effetti di quella sentenza. «L’anno scorso – ha detto Benedetto XVI – alcuni Paesi europei si sono associati al ricorso del Governo italiano nella ben nota causa concernente l’esposizione del crocifisso nei luoghi pubblici. Desidero esprimere la mia gratitudine alle Autorità di queste nazioni, come pure a tutti coloro che si sono impegnati in tal senso».

La «cristianofobia» si manifesta anche nelle minacce alla libertà di educazione e nell’avversione amministrativa alle scuole cattoliche. Né si può, ha detto il Papa, «passare sotto silenzio un’altra minaccia alla libertà religiosa delle famiglie in alcuni Paesi europei, là dove è imposta la partecipazione a corsi di educazione sessuale o civile che trasmettono concezioni della persona e della vita presunte neutre, ma che in realtà riflettono un’antropologia contraria alla fede e alla retta ragione».

Per le ragioni personali che ho citato, presto ascolto particolarmente al richiamo all’attività delle «Organizzazioni Internazionali intergovernative», presso le quali il Papa chiede di riaffermare «in primo luogo, la convinzione che non si può creare una sorta di scala nella gravità dell’intolleranza verso le religioni. Purtroppo, un tale atteggiamento è frequente, e sono precisamente gli atti discriminatori contro i cristiani che sono considerati meno gravi, meno degni di attenzione da parte dei governi e dell’opinione pubblica. Al tempo stesso, si deve pure rifiutare il contrasto pericoloso che alcuni vogliono instaurare tra il diritto alla libertà religiosa e gli altri diritti dell’uomo, dimenticando o negando così il ruolo centrale del rispetto della libertà religiosa nella difesa e protezione dell’alta dignità dell’uomo. Meno giustificabili ancora sono i tentativi di opporre al diritto alla libertà religiosa, dei pretesi nuovi diritti, attivamente promossi da certi settori della società e inseriti nelle legislazioni nazionali o nelle direttive internazionali, ma che non sono, in realtà, che l’espressione di desideri egoistici e non trovano il loro fondamento nell’autentica natura umana. Infine, occorre affermare che una proclamazione astratta della libertà religiosa non è sufficiente: questa norma fondamentale della vita sociale deve trovare applicazione e rispetto a tutti i livelli e in tutti i campi; altrimenti, malgrado giuste affermazioni di principio, si rischia di commettere profonde ingiustizie verso i cittadini che desiderano professare e praticare liberamente la loro fede».

Il fatto che l’OSCE abbia istituito l’ufficio di un Rappresentante per la lotta alla discriminazione contro i cristiani, che si affianca a quelli dei due Rappresentanti per la lotta contro l’antisemitismo e contro l’islamofobia – quest’ultimo fortemente voluto dai Paesi a maggioranza islamica – rappresenta un successo della diplomazia della Santa Sede e di quei governi, come l’attuale governo italiano, che l’hanno intelligentemente affiancata. Le difficoltà e le opposizioni, naturalmente, non mancano, e in tempi di crisi economica le risorse delle organizzazioni internazionali sono severamente limitate. L’agenda indicata dal Papa è però realistica e precisa. Si tratta ora di realizzarla.