Hong Kong è sempre meno libera e sempre più cinese
Gradualmente e senza dar troppo nell’occhio, Hong Kong sta perdendo la sua autonomia, fino ad essere assorbito completamente dalla Repubblica Popolare Cinese. Adesso tocca al Partito Nazionale di Hong Kong (Hknp) che aspira alla piena indipendenza dell’ex colonia britannica ed è stato sciolto d’autorità dal governo locale.
Gradualmente e senza dar troppo nell’occhio, Hong Kong sta perdendo la sua autonomia, fino ad essere assorbito completamente dalla Repubblica Popolare Cinese. Adesso tocca al Partito Nazionale di Hong Kong (Hknp) che aspira alla piena indipendenza dell’ex colonia britannica ed è stato sciolto d’autorità dal governo locale.
E’ un fatto senza precedenti: è infatti la prima volta che l’esecutivo di Hong Kong proibisce in maniera esplicita a un partito di operare. E’ l’ultimo di una serie di piccoli passi in un’unica direzione: la completa annessione alla Cina. Hong Kong non è mai stata una democrazia. Fino al 1997 era una colonia britannica. Da quell’anno è la città-Stato è annessa formalmente alla Cina Popolare, pur conservando un alto grado di autonomia in base al principio di “un Paese, due sistemi”. E' retta da un’oligarchia, con membri dell’esecutivo nominati da un parlamento ristretto e votato solo per metà col suffragio universale e per l’altra metà composto da membri delle categorie professionali (come le corporazioni delle arti e dei mestieri di medievale memoria). La riforma del sistema di governo di Hong Kong è stata letteralmente dettata dalla Cina, per poter controllare la nomina dei membri dell’esecutivo.
Questo cambiamento istituzionale ha provocato la più massiccia protesta democratica della storia recente di Hong Kong, con centinaia di migliaia di persone in piazza nel 2014, in quella che venne ribattezzata “Rivolta degli ombrelli” (portati dai manifestanti anche come segno distintivo). Nel 2015, a dicembre, erano stati rapiti cinque dirigenti di case editrici, critici nei confronti del sistema comunista. Erano stati letteralmente arrestati dalle autorità della Repubblica Popolare Cinese e sono stati rilasciati solo dopo mesi dalla loro scomparsa. I leader del movimento democratico sono stati, via via, arrestati negli ultimi quattro anni, sia in Cina che in paesi terzi. Joshua Wong, il leader di Occupy Hong Kong, nonché fondatore del Partito Demosisto, ad esempio, è stato preso in Tailandia nel 2016. Anche lo scorso agosto, due attivisti di Demosisto, in visita in Cina, sono stati arrestati dalla polizia della Repubblica Popolare e sottoposti a interrogatorio.
Tutti questi episodi sono sintomi di un processo di graduale centralizzazione della Cina e di ri-annessione dei territori rimasti fuori dai confini: da Taiwan, ultimo residuo della Cina nazionalista di Chiang Kai-shek, ad Hong Kong, lascito del colonialismo britannico. Sono territori che per ora sono rimasti immuni al regime comunista di Pechino per decenni, caratterizzati da tassi da record di sviluppo economico, garanti di una piena libertà di religione e di espressione. Almeno finora. Hong Kong ha una scadenza: il 2047. Quell’anno scadrà la formula di compromesso “uno Stato, due sistemi”. Il governo Thatcher, che negoziò il passaggio della colonia alla Cina nel 1984, vedendo una Pechino di Deng Xiaoping ben avviata sulla via delle riforme, probabilmente pensava che di lì al 2047 anche la Cina continentale sarebbe diventata libera e democratica. Invece è rimasta un regime autoritario e sta contagiando tutte le sue vicine “succursali”.
La soppressione del Partito nazionale di Hong Kong è sicuramente la forma più eclatante di auto-repressione, indotta da Pechino. Ufficialmente il ministro della Giustizia della città-Stato nega che vi siano state pressioni dalla Cina continentale. Di fatto, però, lo ammette. La motivazione infatti è chiara: “Il gruppo ha diffuso odio e discriminazione nei confronti dei cinesi della madrepatria”. Leggasi: chiedendo l’indipendenza, offendeva il regime di Pechino. La censura è stata motivata come un caso “legato alla sicurezza nazionale, all’ordine pubblico, alla protezione dei diritti e alla libertà altrui”. Anche qui: chiedendo l’indipendenza, “nessuno” avrebbe più potuto garantire l’ordine e la libertà altrui. E di fronte alle perplessità espresse dal Regno Unito e dagli Stati Uniti, è arrivata la secca risposta del Commissario degli Affari Esteri cinese con delega per Hong Kong: “Dovete smetterla di intervenire nei nostri affari interni con il pretesto della cosiddetta libertà di parola e di associazione. Basta inviare segnali sbagliati a chi porta avanti l’idea dell’indipendenza di Hong Kong”. La censura del partito indipendentista come aveva anticipato il cardinale Joseph Zen, vescovo emerito di Hong Kong, è un atto “ridicolo”, “è un pretesto per silenziare ogni forma di critica”.