Gulag per gli uiguri, il Parlamento europeo condanna Pechino
I rapporti fra l’Ue e la Cina a un bivio. Sta giungendo a conclusione l’Accordo generale sugli investimenti. Ma al tempo stesso il Parlamento europeo condanna il crimine di massa contro le minoranze nello Xinjiang, deportate e costrette al lavoro forzato
Alla fine del 2020 i rapporti fra l’Ue e la Cina si trovano a un bivio. Sta infatti giungendo a conclusione l’Accordo generale sugli investimenti, costato sette anni di trattative. Ma il Parlamento europeo si è svegliato sui diritti umani, condannando almeno il singolo abuso più grande: la deportazione e rieducazione degli uiguri nello Xinjiang. E quindi minaccia di far saltare la ratifica se non ci sono maggiori garanzie.
Se il testo finale dell’accordo sugli investimenti, infatti, non conterrà anche un meccanismo di sanzioni in caso di violazione dei diritti umani e in materia di diritti dei lavoratori, il Parlamento si potrebbe opporre alla ratifica. Per lanciare un segnale in questa direzione, l’organo europeo ha approvato, in plenaria, una risoluzione con cui condanna il sistema di lavori forzati organizzato dal regime di Pechino nello Xinjiang, nella Cina occidentale. Le vittime del nuovo arcipelago gulag sono appartenenti per lo più alle minoranze etniche uigura, kazaka e kirghisa, in maggioranza di religione musulmana. Si stima che gli internati siano più di 1 milione. Non sono solo costretti a lavorare, anche in fabbriche diffuse in tutta la Cina e a migliaia di chilometri da casa loro, ma nei campi sono sottoposti a duri programmi di “rieducazione”, in stile maoista, in cui sono spinti ad abiurare la fede e a rinunciare alle loro tradizioni etniche.
Il lavoro forzato nello Xinjiang e nelle fabbriche cinesi in cui lavorano i deportati uiguri, riguarda direttamente il mercato europeo. Un anno fa esatto, proprio nel periodo natalizio, era stato scoperto un messaggio con una richiesta di aiuto, scritto da un prigioniero e nascosto in una cartolina di auguri venduta nel Regno Unito. E non era il primo caso. E’ di questa settimana, invece, l’accusa, basata sull’inchiesta della , che mascherine chirurgiche vendute in Belgio siano prodotte da lavoratori forzati uiguri, in particolare da donne deportate in uno degli stabilimento della ditta cinese Hubei Haixin. La fabbrica si trova nello Hubei, appunto, a migliaia di chilometri dallo Xinjiang.
Passa indenne, almeno finora, il gigante delle telecomunicazioni cinese Huawei, già da tempo nel mirino degli Stati Uniti, più perché concorrente scomodo e giudicato sleale che per il coinvolgimento nella repressione degli uiguri. Eppure, in queste settimane, sulla Huawei grave un sospetto veramente terribile: è accusata, sulla base di inchieste giornalistiche, di aver sviluppato, assieme all’azienda Megvii, un nuovo programma di riconoscimento facciale in grado di distinguere l’etnia di appartenenza. Secondo attivisti per i diritti umani in Cina, il programma potrà essere installato nelle telecamere di sorveglianza “intelligente” e permetterà alla polizia di distinguere l’etnia di appartenenza di una persona in base ai suoi tratti somatici. Razzismo vero, insomma. Huawei e Megvii rispediscono le accuse al mittente, anche se sono già in funzione programmi simili, ad esempio quello che include l’attribuzione dei “crediti sociali” (una sorta di patente a punti della cittadinanza che può costare l’ostracismo sociale) ad ogni cittadino.
Già l’anno scorso il Parlamento europeo aveva dimostrato di essere sensibile alla questione dello Xinjiang, conferendo il premio Sacharov all’economista ed attivista Ilham Tohti, arrestato e condannato all’ergastolo nel 2014 per “secessionismo” dal regime di Pechino. Questa volta, la risoluzione contro la violazione dei diritti umani nello Xinjiang è stata votata da 604 eurodeputati, contro 20 contrari e 57 astenuti, un testo proposto e approvato da gruppi appartenenti a tutti i partiti europei, ad indicare che la causa è veramente trasversale.