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RITI (E LITI) ORIENTALI

Guerra liturgica in India: il Papa sta con la tradizione

Un vescovo indiano scortato dalla polizia: le contestazioni contro il decreto del sinodo siro-malabarese sul ritorno alle radici e alla celebrazione rivolti a Oriente richiedono l'intervento delle forze dell'ordine e il sostegno della Santa Sede (che però verso i riti occidentali segue un'altra linea).

 

Ecclesia 04_10_2022

Un vescovo indiano incontra il clero per parlare di liturgia e ne esce scortato dalla polizia: è accaduto giovedì scorso, 29 settembre, a mons. Andrews Thazath, amministratore apostolico dell’arcieparchia maggiore di Ernakulam-Angamaly. È l’ultimo episodio di una vera e propria guerra liturgica interna al rito siro-malabarese che ha proprio nell’arcieparchia il suo epicentro, per  l’opposizione al parziale ritorno – decretato da un sinodo e sostenuto dalla Santa Sede – alla celebrazione dell’Eucaristia rivolti a Oriente. Un ritorno tanto osteggiato da parte del clero, che il presule ha dovuto far ricorso alle forze dell’ordine.

Per capire la vicenda dobbiamo tornare indietro di un anno e anche più. Nell’estate del 2021 il sinodo siro-malabarese poneva fine a un pluridecennale far west liturgico seguito agli anni del Concilio. Nonostante la raccomandazione di tutelare le specificità proprie dei riti orientali (Orientalium Ecclesiarum, n. 6), anche in India – come in Occidente – negli anni successivi prese piede la prassi di celebrare l’intera liturgia rivolti al popolo. Questo avveniva contrariamente all’uso tuttora conservato da numerosi riti orientali di volgersi tutti – sacerdote e fedeli – a Oriente, seguendo un comune orientamento verso l’est, simbolo di Cristo, come del resto accadeva anche da noi prima della riforma liturgica.

Accantonando l’orientamento liturgico si finiva così per adottare una latinizzazione postconciliare, a discapito della stessa peculiarità dei riti orientali, e questo proprio mentre si espungevano le influenze latine dai testi liturgici. Negli stessi anni, infatti, si portava a compimento la liturgia siro-malabarese “restaurata”, con la quale celebrò San Giovanni Paolo II nel suo viaggio in India del 1986. Tuttavia, parte del clero la rifiutava, considerandola troppo complessa teologicamente, arcaica e ampollosa. Né mancò chi oppose la consueta obiezione delle «esigenze pastorali contemporanee», come l’allora arcivescovo maggiore dei siro-malabaresi, il cardinal Joseph Parecattil.

Gli sforzi per ritrovare un rito univoco siro-malabarese parevano giunti a un compromesso nel 1999 con la formula “50:50”, ovvero, metà e metà: letture verso il popolo e riti eucaristici verso Oriente. Un compromesso trovato anche con il sostegno della Santa Sede – e in particolare della Congregazione per le Chiese Orientali – dal pontificato di San Giovanni Paolo II ai giorni nostri. All’accordo del 1999 faceva riferimento anche papa Francesco in una lettera del 3 luglio 2021 al sinodo siro-malabarese.

Il 27 agosto 2021 il sinodo decretava dunque la forma “univoca” con cui celebrare la liturgia, con la recognitio della Sede Apostolica (ricevuta il 9 giugno) e a partire dalla prima domenica di Avvento, cioè il 28 novembre 2021. Il testo specifica tra l’altro che «La Congregazione nella sua lettera del 9 giugno ha specificato come segue la modalità uniforme della celebrazione: “Il celebrante sarà rivolto ai fedeli [...] durante la Liturgia della Parola, volgendosi poi verso l’altare – cioè nella stessa direzione dei fedeli – per la Liturgia Eucaristica, e tornando quindi a volgersi ai fedeli per i riti conclusivi dopo la Comunione”».

Tenendo conto esplicitamente delle difficoltà espresse da alcune eparchie, il sinodo concedeva inoltre un periodo di catechesi e introduzione graduale, «non oltre la Pasqua 2022». Ma, come ai tempi del già citato cardinal Parekattil, l’arcieparchia di Ernakulam-Angamaly è divenuta il fulcro dell’opposizione. La querelle liturgica si inserisce in un contesto letteralmente infuocato, anche per via delle accuse di corruzione sul conto del cardinale George Alencherry, titolare dell’arcieparchia, bruciato in effigie da alcuni attivisti. Mentre il cardinale è passato senza indugio al “nuovo” rito, l’allora suo vicario, mons. Antony Kariyil, guidava la “resistenza”, dispensando esenzioni pressoché totali rispetto alle direttive del sinodo e rendendo l’arciepiarchia di Ernakulam de facto una diocesi “ribelle”.

La situazione è tale da aver richiesto una nuova lettera del pontefice il 25 marzo di quest’anno. Un testo ampio e appositamente destinato all’arcieparchia, in cui il Santo Padre critica il rifiuto di aderire alle decisioni del Sinodo ed esorta ad aderirvi prontamente. Stabilisce inoltre che le eventuali e limitate esenzioni devono essere approvate dall’arcivescovo maggiore, ovvero da Alencherry, che il 10 aprile ha formalmente celebrato il rito “uniforme” in cattedrale protetto da un grande dispiegamento di forze dell’ordine.

Il vicario, mons. Kariyil ha rassegnato le dimissioni lo scorso 30 luglio (in anticipo, avendo 72 anni), e nello stesso giorno è stato nominato amministratore apostolico sede plena mons. Andrews Thazhath, 71enne, arcieparca di Trichyr, che in pratica governa l’arcieparchia “ribelle” di Ernakulam per conto della Santa Sede. Tra i compiti dell’amministratore apostolico vi è quello di “normalizzare” la situazione anche sul fronte liturgico.

Il mandato dell’amministratore apostolico è contenuto in una lettera del cardinal Leonardo Sandri, prefetto del Dicastero per le Chiese Orientali, che il 20 settembre scorso ribadisce « oltre ogni dubbio che tutti i vescovi, preti, religiosi e laici sono obbligati a seguire le deicisioni del Sinodo sulla sacra liturgia» ed esclude qualsiasi «variante liturgica per l’arcieparchia di Ernakulam-Angamaly» (cioè la possibilità di continuare a celebrare l’intera liturgia rivolti al popolo). Indicazioni che il novello amministratore ha eseguito, rischiando fisicamente di prenderle giovedì scorso, come abbiamo detto in apertura.

Una disputa apparentemente remota, ma che in realtà pone qualche domanda anche sul “nostro” post-concilio occidentale. Se dalla periferia si vede meglio, come ha più volte ripetuto il Papa, allora a partire dalla querelle sui riti indiani, il “centro” (cioè la Santa Sede) potrebbe chiedersi perché tutelare le peculiarità e le tradizioni orientali e fare poi il contrario per i riti latini. È bene riportare le venerabili liturgie dell’Oriente alle loro radici e alla potente simbologia, compreso l’orientamento liturgico, sganciandole dalle usanze invalse negli ultimi 50 anni. Ma questo vale anche per il rito romano, che non è nato nel 1970. Anche a noi converrebbe volgerci a Oriente, piuttosto che allo Zeitgeist, allo spirito del tempo.