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da conte a comte

Guerra al calendario: l'obiettivo di Grillo è il cristianesimo

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Il pretesto è l'efficienza, il vero motivo è fare tabula rasa dell'identità. Dietro l'ultima trovata del comico-politico c'è la solita ossessione dei rivoluzionari di ieri e di oggi: creare a tavolino un "tempo nuovo" per l'"uomo nuovo".

Editoriali 03_01_2024
SERGIO OLIVERIO - Imagoeconomica

«Trenta giorni ha novembre / con april, giugno e settembre / di ventotto ce n’è uno / tutti gli altri ne han trentuno»: la filastrocca dei mesi è troppo complicata per Beppe Grillo, che sul suo blog ha concluso il 2023 al grido di Riformiamo il nostro tempo!, proponendo un calendario di 13 mesi tutti uguali, di 28 giorni ciascuno, più uno di recupero. Il comico e politico aspira a superare le irregolarità dei mesi e semestri attuali, ma soprattutto a lasciarsi alle spalle «uno schema anacronistico, nato sotto una società prescientifica, teocratica, con un’economia feudale, che non semplifica affatto le nostre vite». L’attuale calendario gregoriano (colpevole tra l’altro di portare il nome di un papa, Gregorio XIII), a sua volta evoluzione del giuliano (da Giulio Cesare), non dovrebbe però cedere il posto a un improbabile calendario “grillano” o grillino che dir si voglia, poiché in origine la proposta non è “farina di grillo” (che peraltro il “nostro” non disdegna).

Al calendario gregoriano subentrerebbe il calendario “comtiano”: proprio con la m, non la n, poiché Grillo non fa qui riferimento a Giuseppe Conte bensì ad Auguste Comte, il quale teorizzò questa scansione del tempo uniforme e (si presumeva) efficiente, ma soprattutto scevra da influenze religiose e anacronistiche. Il padre del positivismo costruì il suo modello sull’anno fisso di 364 giorni (appunto: 13 per 28) teorizzato dal prete italiano Marco Mastrofini. A ciascun mese Comte diede i nomi di personalità della storia, tra i quali trovavano posto anche Mosè e San Paolo, ridotti però al rango di “santi laici”. Tuttavia l’anno positivista non ebbe seguito, come ricorda Grillo che riassume la genesi di quel modello, riformulato e semplificato poi nel 1902 dall’inglese Moses B. Cotsworth, che lasciò i nomi attuali dei mesi, pur ridotti a 28 giorni, inserendone tra giugno e luglio uno creato ex novo, detto «Sol» e il giorno di recupero a fine anno.

Tutti i mesi uguali, tutte le settimane uguali, affinché ogni data si ripeta nello stesso giorno della settimana, eliminando «la confusione causata da mesi con numeri di giorni variabili, semplificando la gestione del tempo, il budget e la pianificazione per individui, aziende e organizzazioni», e agevolando «la rendicontazione finanziaria, l’elaborazione delle buste paga e la gestione dell’inventario». Di fatto, l’unico luogo al mondo in cui tale modello fu applicato fu la Eastman Kodak Company, la storica azienda del settore fotografico, che ne fece uso interno tra il 1928 e il 1989 con le suddette pretese di efficienza e funzionalità (per inciso, simili a quelle addotte dalla legge italiana n. 54 del 1977 che abolì varie feste, compresa l’Epifania, poi reintrodotta) e sempre con l’annessa difficoltà poi di interfacciarsi con l’intero mondo che seguiva un calendario differente.

Non la si direbbe quindi una semplice “grillata”, dal momento che all’ONU la si vagheggia oggi come la si vagheggiava negli anni Venti nell’allora Società delle Nazioni, coltivando la pia illusione di unire il mondo uniformando il tempo. E suscitando l’opposizione ebraica, rievocata sul Washington Post da Shoshana Akabas che scrive: «Era compito del mio trisnonno fermarli». Suo nonno, Arthur I. LeVine, fu inviato nel 1931 a Ginevra dai leader ebraici, giustamente timorosi che il giorno supplementare inserito a fine anno facesse saltare la settimana e con essa la sacralità del sabato: «Il pensiero che il sabato cadesse di mercoledì fece infuriare il mondo ebraico», che ne mise in rilievo le criticità anche sul piano laico e proprio facendo riferimento all’esperienza della Kodak. Ma non solo il mondo ebraico, poiché nel dibattito intervennero anche gli Avventisti del Settimo Giorno e la Santa Sede. «Il tentativo di creare qualcosa che funzionasse per tutti si era trasformato in qualcosa che non piaceva quasi a nessuno», scrive Akabas, che rivela di aver trovato dopo decenni «una copia dell'Esodo sullo scaffale di mia nonna. All'interno c'era un'iscrizione del rabbino Hertz: “Ad Arthur LeVine, un compagno combattente nella battaglia del sabato”».

Gratta gratta è sempre qui il punctum dolens su cui tutte le “rivoluzioni del calendario” vanno a picchiare, da quella francese a quelle di stampo sovietico: le festività e in particolare quelle religiose. Il nuovo calendario comporterebbe «una armonizzazione delle festività, il giorno extra aggiunto come festività alla fine dell’anno porterebbe una giornata universale di festa, contro ogni tipo di discriminazione religiosa e promuovendo l’unità globale», spiega Grillo che, bontà sua, almeno lascia la tradizionale scansione in sette giorni, laddove invece i rivoluzionari francesi avevano introdotto le decadi proprio al fine di abolire l’odiata “settimana giudeo-cristiana”, oltre a mutare totalmente i nomi dei mesi (vendemmiaio, brumaio, termidoro…) e “decapitare” anche le feste oltre alle teste. È qui evidente una delle differenze tra i calendari sviluppatisi organicamente (quello cristiano in fondo si innestò su quello romano) e quelli fabbricati a tavolino perché l’uomo nuovo vivesse anche in un tempo “nuovo”, artificialmente scandito per fare tabula rasa della sua identità storica, culturale e religiosa.

Tentativi estremi, falliti nel corso di qualche decennio, che però fanno da bandiera a uno svuotamento più graduale e pertanto più incisivo: se l’Occidente mantiene il calendario gregoriano e persino – almeno per ora – la datazione “dagli anni di Cristo”, ne ha però progressivamente perso il senso. Gli esempi si sprecherebbero, tante sono le festività cristiane (Natale in primis) di cui si ignora il significato e si conosce solo la durata, nella misura in cui permettono di fare vacanza o ponte. Non pochi sarebbero d’accordo con Grillo nel dire che il mondo è cambiato, dichiarando guerra a qualsiasi «schema anacronistico». Rinunciamo allora, insieme al calendario, anche all’immenso patrimonio letterario e artistico risalente a quella vituperata «società prescientifica, teocratica». Togliamo tutto ciò, e in quella decantata «giornata universale di festa» ci accontenteremo di leggere il blog di Beppe Grillo.



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