Grexit, il possibile suicidio monetario della Grecia
Si torna a parlare con insistenza di "Grexit", il neologismo con cui si indica la possibile uscita della Grecia dall'euro e dalla stessa Unione Europea. Il ritorno di Atene alla vecchia valuta nazionale, tuttavia, provocherebbe un disastro economico peggiore di quello che i greci hanno finora vissuto.
In questi giorni non si fa che parlare, con insistenza, di Grexit. Un termine non certo nuovo, nato nei giorni più drammatici della crisi greca del debito (metà 2011), quando l’ipotesi di uscita della Grecia dall’euro area era un’opzione non solo possibile ma perfino probabile. Poi il tramonto del termine negli anni successivi, quando si è capito che un’eventuale allontanamento del paese dalla moneta unica avrebbe avuto effetti a dir poco catastrofici sulla stabilità europea.
Come mai oggi si torna a citare la parola tabù? Il motivo è molto semplice: è tornata ad essere un’opzione in campo. Anzi c’è perfino una data: il 19 giugno, giorno in cui Atene dovrà rimborsare una tranche da 2,5 miliardi di euro al Fmi. Se non lo farà sarà di fatto fuori dalla moneta unica. I soldi, manco a dirlo, ad oggi non ci sono e trovarli sembra un’operazione titanica: non solo perché son tanti (in rapporto al Pil sarebbe come per il governo italiano sborsare 20 miliardi) ma anche perché il nuovo governo di Alexis Tsipras è fermamente contrario a qualsiasi ipotesi di riduzione della spesa pubblica.
Nelle scorse settimane l’Ue ha lanciato l’idea di un nuovo piano di salvataggio in cambio di riforme strutturali: Tsipras ha invece presentato un pacchetto risibile che, a fronte di pochi tagli, garantiva elettricità e viveri a 300mila greci indigenti. Idea di per sé nobile, per carità, ma totalmente irrealizzabile in un Paese sull’orlo del default. Gli stessi risparmi dell’intero pacchetto, pochi miliardi, secondo l’Ue erano largamente «sovrastimati». In concreto Tsipras chiedeva di salvare la Grecia senza impegnarsi a rettificare la (penosa) situazione delle finanze elleniche e l’Ue ha detto no: il primo non poteva del resto permettersi di accettare l’austerity dopo averla additata per anni come male assoluto, la seconda non poteva accettare un prestito senza condizioni. Due scelte che, se non interverranno novità, potrebbe condurre direttamente all’uscita dall’euro o meglio dall’Unione Europea visto che il Trattato di Lisbona non prevede l’uscita dalla moneta unica.
Chiedendo perdono al lettore per la lunga ma necessaria introduzione, passiamo alla domanda centrale dell’articolo: l’uscita dall’euro sarà un bene per la Grecia? A sentire certi commentatori ed economisti sì: a loro giudizio l’uscita dalla “gabbia europea” e la successiva svalutazione della moneta darebbero nuova competitività al Paese; inoltre la ritrovata “sovranità monetaria” permetterebbe al governo di autofinanziarsi in maniera pressoché illimitata senza ricorrere al mercato.
A parte che, se davvero così van le cose, dovrebbero spiegarci come mai tutti i Paesi che emettono moneta sovrana – Usa e Giappone in primis – ricorrono al mercato per finanziarsi, l’uscita della Grecia dall’euro porterebbe con sé una serie di problemi oggettivi e ineliminabili. Conseguenze che, strano ma vero, colpirebbero le famiglie, specie quelle più povere. Secondo i calcoli di Ubs l’uscita della Grecia dall’euro potrebbe distruggere il 45% del Pil del Paese e svalutare la nuova moneta del 60% rispetto l’euro. Gli effetti del calo del prodotto nazionale sono evidenti: ci sarebbe un nuovo aumento della disoccupazione che facendo le proporzioni, dal 26% attuale (55% quella giovanile), potrebbe toccare il 50%. Il che vorrebbe dire altri centinaia di migliaia greci senza lavoro, soldi e dignità.
Ma anche la svalutazione porterebbe conseguenze negative dal momento che si accompagna, generalmente, ad un aumento generalizzato dei prezzi (almeno le merci di importazione iniziano a costare molto di più) che renderebbe la vita grama di chiunque, specie se senza lavoro. È quella che gli economisti chiamano stagflazione: la moneta perde valore, i prezzi aumentano ma l’economia non migliora, anzi arretra. E lo Stato? Avrebbe davvero più soldi da spendere per sostenere il welfare? Lo dubitiamo. Sempre che non voglia “stampare moneta” a tal punto da renderla carta straccia il governo dovrebbe continuare a finanziarsi sul mercato dove troverebbe però molte più difficoltà di oggi.
I tassi di interesse sono rimasti fino ad oggi relativamente bassi (da fine 2012 veleggia fra il 6 e il 12%, senza contare i piani di ristrutturazione che hanno fatto perdere agli investitori gran parte del capitale) anche grazie alle garanzie fornite dall’Europa. Svanite quelle gli investitori chiederebbero maggiori remunerazioni per accollarsi un probabile rischio default. Non solo: la stessa svalutazione costringerebbe a offrire interessi sempre più alti. Per evitare il fallimento lo Stato sarebbe comunque costretto ad operare tagli nel settore pubblico, che avrebbero come risultato quello di produrre altra disoccupazione.
Insomma la Grecia potrebbe trovarsi un vero e proprio vortice di crisi di liquidità, decrescita e inflazione che spingerebbero verso l’alto un tasso di povertà già oggi insostenibile, che secondo i dati dell’Unicef riguarda il 28,7% delle famiglie con figli piccoli e il 34,7% delle famiglie con adolescenti. A guadagnarci, paradossalmente, potrebbero essere solo alcuni grossi investitori (i cosiddetti “speculatori”) che – per breve tempo – godrebbero di tassi interesse molto vantaggiosi.
Non è un caso se ad opporsi all’uscita dall’euro siano stati fino ad oggi la stragrande maggioranza dei partiti greci. Non solo gli storici Nea Demokratia e Pasok, sostenitori della politica del rigore, ma anche To Potami, partito antisistema - qualcuno l’ha paragonato al M5S - ma fortemente europeista. E ovviamente la stessa Syriza di Tsipras che non ha mai detto di voler porre fine alla moneta unica (lo scorso gennaio ha anzi dichiarato: «Non vogliamo il crollo ma la salvezza dell’euro»). A volerne uscire sono solo due formazioni estremiste come i neonazisti di Alba Dorata, i Greci Indipendenti dell’imbarazzante Panos Kammenos (quello che diceva «gli ebrei greci non pagano le tasse» e in un comizio invitava a «linciare» un avversario politico) e il vecchio Partito comunista di Grecia. Tutti insieme arrivano al 16,5% dei consensi.
Forse i greci si rendono conto che un’uscita dall’euro comporterebbe grossi problemi a tutti? In buona parte sì. Faranno di tutto per evitare di uscirne? Temiamo di no. Richiederebbe sacrifici troppo forti per un Paese che ha sempre vissuto di Stato e spesa pubblica. Forse è ormai davvero troppo tardi. L’euro, in Grecia, è già morto.
ps: I risultati di un recente sondaggio condotto dalla Kapa Research per il quotidiano To Vima parlano chiaro: il 71,9% dei greci ritiene che il loro Paese trarrebbe beneficio da un accordo con i suoi creditori, mentre il 23,2% è a favore di una rottura. Il 72,9% vuole che il Paese resti all'interno della zona euro, mentre un 20,3% preferisce tornare alla dracma.