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SIRIA

Greta e Vanessa sono libere Tanti dubbi restano irrisolti

Dopo il loro rapimento in Siria, ad Abizmu, di Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, due volontarie italiane, noi non avevamo più avuto alcuna notizia certa. Solo voci inattendibili e un unico video, diffuso il 31 dicembre. Ora sono vive, libere e a casa. Oltre al sollievo per il loro ritorno, restano tanti dubbi sulla dinamica del loro rapimento.

Cronaca 16_01_2015
Greta e Vanessa

Greta Ramelli e Vanessa Marzullo sono tornate in Italia nella notte, libere e vive. Le loro famiglie scoppiano di gioia. Le informazioni dal momento del loro rapimento ad Abizmu, in Siria, il 31 luglio 2014, erano state date col contagocce e da fonti non sempre attendibili. La Farnesina stessa ha imposto alla stampa il più rigoroso silenzio per non compromettere la situazione. Di fatto, il periodo che va dal 31 luglio scorso fino alla giornata di ieri, 15 gennaio 2015, dal rapimento alla liberazione, è stata una lunga e silenziosa parentesi, interrotta solo dal videomessaggio del 31 dicembre, in cui le due ragazze, velate e irriconoscibili, imploravano di essere salvate.

Oltre al sollievo per la notizia, per aver appreso che due giovani italiane sono vive e non sono più nelle mani dei sequestratori, sono ancora molte le domande che restano senza risposta.

Perché Greta e Vanessa sono finite nelle mani dei rapitori? Su questo punto si sono sviluppate tante teorie molto fantasiose e alcuni dati su cui sorgono meno dubbi. Le due cooperanti erano fra le fondatrici dell’associazione di volontariato Horryaty, nata all’inizio del 2014 per portare aiuti medici alla popolazione siriana. Lungi dall’essere un’associazione apolitica o imparziale, Horryaty era dichiaratamente vicina alla causa del Consiglio Nazionale Siriano, la resistenza a Bashar al Assad, la cui bandiera era esposta sia nelle manifestazioni dal vivo che sui siti Internet dell’organizzazione. Come tutte le organizzazioni vicine agli oppositori di Assad, sono entrate in Siria da Nord, dal confine della Turchia. Greta e Vanessa non sono andate in Siria alla cieca, ma hanno condotto un primo sopralluogo in marzo. Nella loro spedizione di luglio sono state accompagnate da Daniele Raineri, giornalista de Il Foglio veterano della guerra siriana, su cui ha realizzato numerosi reportage, anche per la Tv La7. Considerando queste premesse, è molto più ardua l’ipotesi di un rapimento per ingenuità, molto più probabile quella del rapimento deliberato: una banda di sequestratori avrebbe dunque puntato direttamente a loro (o a Raineri, o a entrambi i bersagli), conoscendo in anticipo il loro arrivo.

Nel silenzio dei canali informativi ufficiali, i media alternativi, su Internet, si sono sfogati formulando una serie di congetture. In particolar modo è finito sotto la lente di ingrandimento un cartello, scritto in arabo, che Greta e Vanessa esibivano in una delle loro manifestazioni, in cui ringraziano il gruppo di resistenza siriana Liwa Shuhada. Questo gruppo armato, stando alle fonti pubbliche di analisti, opera nella provincia di Idlib, dove le due italiane sono state rapite, ed è parte del Consiglio Nazionale Siriano (Cns), la parte dei ribelli siriani dichiaratamente estranea alla jihad internazionale (non l’Isis, né Al Qaeda, dunque). Alcune fonti su Internet, comunque, hanno descritto Liwa Shuhada come una formazione armata affiliata ad Al Nusrah, la costola siriana di Al Qaeda, responsabile del rapimento. Queste informazioni, tuttavia, sono da prendere con le molle, perché nel corso di una guerra civile la propaganda funziona a pieno ritmo e, secondo i media pro-Assad tutte le formazioni della resistenza (incluso l’intero Cns) sono da considerarsi costole di Al Qaeda o dell’Isis, mentre nella realtà dei fatti lottano fra loro infliggendosi migliaia di perdite. E’ comunque da escludere, vista la natura di Horryaty, fra i cui sponsor ci sono le Acli/Ipsia di Varese, vi siano simpatie per il terrorismo islamico. O per il terrorismo in senso lato. In settembre, fra le varie ricostruzioni ufficiose sulla vicenda, il quotidiano libanese Al Akhbar sosteneva che le due ragazze, assieme al giornalista de Il Foglio, fossero state attirate con un inganno nella casa del capo del Consiglio Rivoluzionario di Alabsmo, dopodiché Raineri è riuscito a fuggire in tempo, mentre le due ragazze sono finite prigioniere. Ma anche questa fonte (Al Akhbar) è da prendere con riserva, perché è dichiaratamente vicina a Hezbollah, parte in causa nel conflitto civile siriano.

La varietà di versioni su gruppi e schieramenti, comunque, fornisce almeno un’impressione chiara: in Siria sai con chi entri, ma non chi ti troverai accanto una volta entrato. Il Cns è una galassia di movimenti armati in continuo mutamento. I confini fra Cns e Al Nusrah e quest’ultima e l’Isis non sono netti. I rapporti fra queste tre formazioni passano dall’ostilità aperta all’alleanza tattica temporanea, nei momenti di debolezza. Al Nusrah, tanto per dire, era nemica del Cns finché era forte, poi quando è sorta la minaccia comune dell’Isis è diventata alleata, ma quando sono iniziati i raid della Coalizione sull’Isis ha ricominciato la sua azione terrorista anche ai danni del Cns. Inoltre non è neppure possibile stabilire quanto il Cns sia infiltrato da formazioni islamiste, che poi passano armi e bagagli (ed esperienza) ad Al Nusrah, o anche all’Isis. In questa circostanza, anche affidarsi alla protezione di un gruppo armato ritenuto amico, diventa un gioco d’azzardo. Se non possono in alcun modo essere accusate di essere delle “fiancheggiatrici del terrorismo” (come molti si affrettano a dire, sui social network, basandosi solo su informazioni dubbie, a dir poco), Greta e Vanessa possono certamente essere rimproverate per eccesso di fiducia nei confronti dei loro referenti locali.

Il problema del terrorismo, semmai, si pone adesso. Infatti, la prima notizia della liberazione di Greta e Vanessa non l’abbiamo ricevuta dalla Farnesina (che fino a ieri pomeriggio ha mantenuto un rigoroso silenzio), ma da tweet di formazioni ribelli vicine ad Al Nusrah, rilanciati dal canale tv Al Mubasher, del network arabo Al Jazeera. Solo successivamente è arrivata la conferma dal governo italiano. E infine sono partiti i rabbiosi commenti dell’Isis: “Questi cani del Fronte al Nusrah rilasciano le donne crociate italiane e uccidono i simpatizzanti dello Stato islamico”. Quindi erano nelle mani di Al Nusrah, da quanto apprendiamo da queste fonti. E, non essendoci stato alcun blitz delle forze speciali italiane, come è stato possibile il rilascio, in cosa è consistito l’intenso “lavoro di squadra dell’Italia” osannato dal governo Renzi? Dalle istituzioni non arriva alcun commento, ma sull'account Twitter @ekhateb88, ritenuto vicino ai ribelli anti-Assad, viene postata la notizia dell’avvenuto pagamento di un riscatto pari a 12 milioni di dollari. Questa affermazione è stata poi rilanciata dalla Tv al Aan, di Dubai e dal quotidiano britannico Guardian.

Se così fosse (ed è su questa cifra, 12 milioni, che è subito nata la polemica contro il governo, animata dalla Lega Nord), avremmo fornito un finanziamento a fondo perduto alla jihad islamica. E questo in un periodo in cui il terrorismo è attivissimo, all’indomani della strage di Parigi, nello stesso giorno in cui, in Belgio, un sanguinoso blitz della polizia ha smantellato una cellula che preparava attentati. Il governo italiano, come è noto a tutti, ha sempre trattato. L’unica volta che ha rifiutato categoricamente di farlo, l’ostaggio è stato ucciso: si chiamava Aldo Moro. Pagare un riscatto ai terroristi islamici, tuttavia, non fa altro che alimentare il loro business dei rapimenti, che, assieme al contrabbando del petrolio, alle raccolte fondi negli ambienti islamici radicali e alle razzie, è una delle prime fonti di profitto. Il nostro governo ritiene che questa sia la miglior tattica per liberare i prigionieri. Gran Bretagna, Usa e Francia preferiscono tentare i blitz di liberazione e fra i loro ostaggi si conta il maggior numero di vittime, in effetti. Vuoi perché vengono assassinati prima da terroristi che sanno di non poter negoziare, vuoi perché restano uccisi nei falliti tentativi di liberazione. L’Italia impiega sicuramente tattiche differenti, ma quanto rende sicura la vita degli italiani all’estero? Se rapire un italiano paga (e paga, a quanto pare), possiamo solo immaginare quanti altri nostri connazionali verranno rapiti ancora. E di italiani all’estero ce n’è sempre: giornalisti, missionari, impiegati di filiali in aree ad alto rischio, volontari e cooperanti come le due ragazze.

Non è realistico pretendere che il governo cambi tattica e passi ad un atteggiamento di intransigenza nei confronti dei rapitori: non lo ha mai fatto e gli esempi dei falliti blitz americani, britannici e francesi dimostrano che non sia neppure un metodo promettente. Non si può neppure pensare di richiamare a casa tutti gli italiani che operano in zone pericolose. Quel che dovrebbe cambiare è semmai la mentalità di chi corre rischi portando aiuti in aree di guerra. Che sia più consapevole dei pericoli ai quali va ad esporsi e al danno che può infliggere all’intera comunità nel caso la sua personale impresa (encomiabile quanto si voglia) dovesse finire in un sequestro. Il governo potrebbe e dovrebbe aiutare i singoli in quest’opera di responsabilizzazione, non accogliendo a braccia aperte ogni iniziativa umanitaria, ma scoraggiando (anche attivamente) quelle che appaiono, già da subito, troppo rischiose. Non si tratterebbe di scoraggiare l’altruismo, ma di incoraggiare la responsabilità. Un altruista morto, o rapito, non può più fare del bene a nessuno. E se il proprio slancio di generosità finisce in una trattativa con degli jihadisti, domandiamoci poi a chi possa far bene.