Grecia, si raccolgono i cocci del referendum
Col senno di poi il referendum greco voluto da Tsipras e vinto dal suo fronte, non è servito ad altro che a peggiorare le condizioni dei creditori. Oggi è la Grecia stessa a dover proporre, per se stessa, una versione ancor più dura dell'austerity chiesta dai creditori: più tasse, tagli, privatizzazioni.
Eurogruppo, secondo round. La Grecia, ieri, un piano di risanamento lo ha portato. Ed è questo il primo paradosso della giornata: si tratta di una riforma “lacrime e sangue”, già ampiamente anticipata venerdì, più dura ancora rispetto al progetto di riforma proposto dall’Ue e bocciato dal referendum di domenica scorsa.
Si tratta, infatti, di una manovra da 12 miliardi di euro, distribuiti fra risparmi e maggiori tasse e vendita delle infrastrutture strategiche. In pratica, sono soddisfatte praticamente tutte le condizioni che erano state chieste dall’Ue: più tasse agli armatori, tagli alla spesa militare per 300 milioni, abolizione del contributo di solidarietà ai pensionati entro il 2019, innalzamento dell’età pensionabile a 67 anni entro il 2022, aumento dell’Iva al 23% per ristoratori e catering, aumento delle imposte sulle imprese dal 26% al 28%, fine dei privilegi fiscali per le isole turistiche, privatizzazione dei porti (Pireo, venduto ai cinesi per 550 milioni di euro e Salonicco in vendita il prossimo ottobre) e completamento della privatizzazione della Ote, l’agenzia di telecomunicazioni. L’Ue chiede che vengano vendute al più presto anche le ferrovie e che sia completata l’operazione di vendita degli aeroporti di Atene alla compagnia tedesca Fraport, per 1,2 miliardi di euro, mentre l’area di Hellinikon (l’ex aeroporto di Atene) se la potrebbe aggiudicare il Qatar. In cambio delle riforme e delle privatizzazioni, il governo Tsipras chiede ai creditori internazionali un terzo piano di aiuti pari a 53,5 miliardi di euro, una somma che arriva fino a 74 miliardi se si aggiungono quelli chiesti al Fmi. Inoltre, Tsipras chiede anche il condono di parte del debito, anche se sa che i trattati europei lo vietano, come ogni volta ricorda il ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schaeuble.
Nemmeno i governi di Nea Dimokratia avevano obiettivi così ambiziosi. E le riforme chieste dall’Ue, appunto, non erano così drastiche. Ma allora per cosa e perché hanno votato i greci? Come si spiega che la maggioranza degli elettori abbia votato per respingere condizioni dure, e si ritrovi a dover subire condizioni ancora più dure? Alexis Tsipras, quando è stato eletto, aveva dichiarato guerra alle privatizzazioni e ai tagli della spesa sociale, quando ha chiamato i greci al voto, domenica scorsa, lo ha fatto per ribadire il suo impegno, costasse anche una dichiarazione di guerra all’Ue. Eppure… Il referendum, col senno di poi, non trova alcuna spiegazione razionale e forse è questo il motivo delle dimissioni di Varoufakis, anche a fronte della vittoria del NO, che lui sosteneva. La ragione del referendum è, a questo punto, solo politica. E’ servito al governo Tsipras per consolidare il consenso in patria e ottenere visibilità all’estero, lanciare un grido di battaglia “contro l’Europa delle banche e degli strozzini”, che è già diventato uno slogan di destra e di sinistra anche in Italia. Ma all’atto pratico, il referendum ha solo peggiorato le condizioni dei greci.
Le condizioni sono peggiorate, perché la settimana di passione che ha preceduto il referendum ha stroncato i risparmi dei greci e dato il colpo di grazia a un’economia già debole: le banche, nonostante il razionamento imposto sui prelievi (tuttora in vigore: non si può prelevare più di 60 euro al giorno), hanno quasi finito la loro liquidità; i consumi sono calati del 70%, il turismo ha perso il 40%. La nuova previsione sul 2015 contempla una contrazione del Pil di almeno 3 punti. Questo è il costo del mancato accordo con l’Eurogruppo e dell’indizione del referendum. E il conto lo pagano i greci. Adesso non basta più una manovra da 8 miliardi, ma una da 12. Lo stesso parlamento di Atene che, la settimana scorsa, votava a gran maggioranza per il referendum, ieri ha votato, con la stessa maggioranza qualificata, l’approvazione del piano “lacrime e sangue” che Tsipras propone ai suoi creditori.
Ma c’è anche un altro effetto provocato dal referendum greco: la perdita di fiducia da parte dei creditori internazionali. L’Eurogruppo si è spaccato sulla decisione se concedere o meno un terzo piano di salvataggio alla Grecia. A guidare il fronte dei contrari c’è lo stesso presidente di turno, l’olandese Jeroen Dijsselbloem: “Non ci siamo ancora: sia sulla sostanza, in termini di politica fiscale e di riforme economiche, sia per quanto riguarda la fiducia, che è stata minata profondamente. Questo è un vero problema (…) ci sono tra i ministri molte preoccupazioni. Sarà una riunione particolarmente difficile”, dichiarava prima che l’Eurogruppo si riunisse. Duro anche Schaeuble, che ieri ha ribadito la sua contrarietà e ha ammesso la possibilità che la Grecia esca dall’euro, anche “temporaneamente”, per “cinque anni” (formula bizzarra: si tratta la valuta comune come fosse un cambio fisso). Secondo il ministro tedesco, nella nuova proposta greca, “Mancano ambiti centrali di riforma per modernizzare il Paese e produrre crescita e sviluppo sostenibile nel lungo periodo. Mancano i presupposti per un nuovo programma di aiuti basato su 3 anni”. Ad opporsi al nuovo bailout per Atene sono anche i paesi dell’Est entrati più di recente nell’euro, quelli che hanno dovuto affrontare sacrifici immani per poter godere, o quantomeno sperare in un futuro migliore. Si tratta di Estonia, Lettonia, Lituania, Slovacchia e Slovenia, paesi che hanno ancora un reddito individuale medio inferiore a quello dei greci, hanno un welfare infinitamente più leggero rispetto a quello dei loro “cugini” mediterranei e non intendono mantenerli coi soldi dei loro contribuenti.
Oggi l'Eurogruppo si riunirà per la seconda sessione, perché ieri non ha concluso nulla. E la parola passa al vertice dei capi di Stato e di governo dell’Unione Europea. Forse è la volta buona che si prenderà una decisione, nel bene o nel male.