Governo Gentiloni, fra imbarazzi e fragili equilibri
La conferenza stampa di fine anno, la prima del governo Gentiloni, è caratterizzata da alcuni imbarazzi nelle risposte sulle nomine più chiacchierate (Boschi e Lotti), tanti temi difficili (terremoti, MPS) e rivela tanta fragilità: il governo sta in piedi solo per la pattuglia dei forzisti e il manipolo di senatori di Ala.
Il “governo-fotocopia” completa la sua squadra con la nomina dei sottosegretari (riconfermati quasi tutti, salvo piccolissimi spostamenti) e si prepara a un 2017 denso di emergenze nazionali e impegni internazionali.
Il premier Paolo Gentiloni, nella tradizionale conferenza stampa di fine anno, ha difeso il lavoro del governo Renzi e si è mosso nel solco della continuità, elogiando Jobs Act e riforme fatte dal precedente esecutivo. Visibilmente imbarazzato sulle domande dei giornalisti riguardanti le riconferme di Maria Elena Boschi e dell’indagato Luca Lotti, Gentiloni ha preferito soffermarsi sulle sfide che attendono l’Italia nei prossimi sei mesi, durante la presidenza di turno italiana del G7, in particolare le celebrazioni dei sessant’anni dei trattati europei e lo svolgimento del vertice dei Ministri dell’Economia delle sette nazioni più sviluppate, previsto in primavera nella città siciliana di Taormina. Non ha nascosto le difficoltà rispetto alla ricostruzione post-terremoto, alle emergenze terrorismo e immigrazione, al salvataggio delle banche e al rilancio del sud, proprio nel giorno in cui l’Istat diffonde la fotografia dell’Italia come di un Paese sempre più povero e sempre più vecchio. Senza trascurare l’ipotesi aumento dell’Iva e delle accise per finanziare il salvataggio del Monte dei Paschi di Siena.
Ma il futuro della legislatura è legato essenzialmente al tema della legge elettorale. Fino a quando non ci sarà un sistema di voto che assicuri il corretto funzionamento dei meccanismi della democrazia rappresentativa non è possibile andare a votare. Facile prevedere che gli attuali parlamentari cercheranno di fare melina almeno fino a settembre 2017, in maniera tale da maturare il sospirato vitalizio. Non basterà, dunque, il verdetto della Corte Costituzionale sull’Italicum, previsto per il 24 gennaio. A prescindere da quello che dirà la Consulta, le forze politiche dovranno sedersi attorno a un tavolo e trovare una soluzione condivisa sul sistema elettorale. O almeno la più condivisa possibile tra il maggior numero di partiti.
Nelle ultime settimane su questo tema si sono create delle strane alleanze: Renzi e Salvini hanno entrambi interesse a votare col Mattarellum (75% maggioritario, 25% proporzionale) e sarebbero disposti ad accelerare, al fine di provocare lo scioglimento delle Camere già prima dell’estate. Ma Berlusconi e la minoranza dem in questo momento hanno tutto l’interesse a prendere tempo, sia pure per calcoli diversi: l’ex Cavaliere vuole puntellare l’attuale esecutivo Gentiloni per ottenere sostegno per le sue aziende, in particolare Mediaset e, pur di raggiungere questo risultato, è disposto a votare singoli provvedimenti del governo, al fine di assicurargli lunga durata. La minoranza dem ha bisogno di organizzare le truppe in vista del congresso Pd e vuole far cuocere a fuoco lento un Renzi che teme di restare per troppo tempo lontano da Palazzo Chigi e di perdere l’appeal decisivo sull’elettorato.
Berlusconi preme per un ritorno al proporzionale, che consentirebbe a Forza Italia, anche qualora prendesse soltanto il 10% dei voti, di portare una discreta pattuglia di parlamentari e di poter essere comunque determinante nei futuri assetti. D’altra parte, la vittoria schiacciante dei “no” al referendum ha già riportato in auge il leader azzurro, che con le sue aperture all’attuale governo sta mettendo nell’angolo i verdiniani. Questi ultimi si sono accorti di non essere più determinanti e ora stanno provando a tornare nell’ovile del centrodestra, nel disperato tentativo di strappare una candidatura anche al prossimo giro. Tuttavia, l’evidente avvicinamento tra il governo e i vertici di Forza Italia sta creando fortissimi malumori nel centrodestra. Meloni e Salvini ormai stanno giocando in proprio, sono assai distanti da Berlusconi e hanno su Europa, immigrazione e banche posizioni diametralmente opposte a quelle degli azzurri.
Lo scenario è quindi cambiato: prima Renzi era riuscito a navigare al Senato grazie ai voti dei verdiniani, ora Gentiloni può contare sulla sponda forzista, mentre a Palazzo Madama il manipolo di senatori Ala vota comunque a favore del governo per puro istinto di sopravvivenza, al fine di salvare le attuali poltrone e, da settembre 2017, i vitalizi. Ma questa condotta filo-governativa di Forza Italia pagherà in termini elettorali? Sostenere l’azione del governo finalizzata a salvare le banche e in cambio ottenere protezione dall’esecutivo nell’affare Mediaset-Vivendi porterà consensi? L’elettorato di centrodestra è disorientato, perché i frutti della vittoria del “no” al referendum del 4 dicembre si stanno traducendo esclusivamente in aiuti per Berlusconi e le sue aziende, anziché contribuire a ispirare una nuova strategia di ricostruzione di quella coalizione. Renzi si illude di poter decidere in qualunque momento se e quando staccare la spina a Gentiloni. Potrebbero invece essere eventi nazionali o internazionali a dettare l’agenda governativa italiana e a prolungare anche fino alla scadenza naturale del febbraio 2018 la vita delle attuali Camere, consentendo quell’assestamento e quella “ricucitura” interna ai principali schieramenti dopo l’aspra e pluriennale contrapposizione tra renzismo e antirenzismo.