Gómez Dávila, un'opera lunga una vita
Cento anni fa nasceva il pensatore cattolico colombiano, che si definiva "un vero reazionario" e che ha lasciato una lunghissima raccolta di aforismi in cui si rivela una straordinaria capacità di leggere il senso delle cose e del tempo.
Un secolo fa, il 18 maggio 1913, nasceva Nicolás Gómez Dávila. Scatta immediatamente, in casi così, il riflesso condizionato che spinge le dita a premere sulla tastiera parole che oramai non si negano più a nessuno quali “genio”, “maestro”, “originale”, ma è un escamotage troppo facile.
Sarà anche stato tutto ciò, Gómez Dávila, ma importa poco. Importa invece la traccia che ha lasciato poiché, come tutte le tracce, segna il cammino che conduce a una meta, e perché, nel suo caso, la meta è ineludibile.
Quanto alla sua biografia, i ritratti più rotondi (in realtà è sempre il medesimo, di volta in volta ripensato, riformulato, approfondito e, proprio alla scuola di Gómez Dávila, ruminato e rimuginato) sono quelli che, a partire dall’anno giubilare 2000, ha elaborato Giovanni Cantoni, fondatore di Alleanza Cattolica (cfr. Per una civiltà cristiana del terzo millennio. La coscienza della Magna Europa e il quinto viaggio di Colombo, Sugarco, Milano 2008). Alquanto pioneristicamente, Cantoni in quegli anni s’imbatté in Gomez Davila nel corso di quelle sue permanenti ricerche sul pensiero contro-rivoluzionario cattolico (di cui da decenni è uno dei massimi cultori in Italia, e un vero e proprio depositum) che lo hanno tra l’altro portato ad approfondire il concetto di “Magna Europa”. Coniata, senz’averne l’aria, dallo studioso neerlandese della cultura Hendrik Brugmans (1906-1997), l’espressione descrive l’ecumene nato da quel «continente di cultura» – come felicemente lo ha definito il beato Giovanni Paolo II (1920-2005) – che è l’Europa forgiata dal cristianesimo e che unisce di legami profondi il Vecchio Continente a tutti i i Paesi dove gli europei hanno instaurato civiltà radicate nel cristianesimo (cfr. Magna Europa. L’Europa fuori dall’Europa, a cura di G. Cantoni e Francesco Pappalardo, D’Ettoris, Crotone 2006).
Il “discorso dell’anima”
Nato da una famiglia altolocata a Cajicá, in Colombia, Gómez Dávila compie studi regolari solo elementari e medi (privatamente, in Francia, dove vive dai 6 ai 23 anni). Non si laurea. Trascorre la vita praticamente recluso a casa propria, a Santa Fe de Bogotá, capitale del suo Paese natale, leggendo, studiando, riflettendo, scrivendo e apprendendo lingue (muore apprestandosi a studiare il danese, per confrontarsi direttamente con il pensiero del filosofo Søren Kierkegaard [1813-1855]) giacché non si fida delle traduzioni (dominava greco, latino, tedesco, inglese, portoghese, francese, italiano, russo e, naturalmente, spagnolo). Cattolico conservatore, anzi “reazionario” (come amava definirsi), muore il 17 maggio 1994, seguendo di un anno la moglie, María Emilia Nieto de Gómez, e lasciando tre figli.
In pratica, Gómez Dávila scrive un’opera sola, un work in progress che continuamente si espande e si approfondisce, e che mai si chiude, non perché sia un blob inconcludente o incompiuto, ma perché coincide, virtualmente, con le dimensioni dell’anima, la statura dello spirito, la geografia della coscienza, i confini del pensiero. Tende cioè a infinito: sia nel senso matematico che è proprio all’espressione, sia nel senso filosofico di contemplazione l’assoluto. Così come la sua esistenza fisica è stata la scelta della stabilitas loci, anche in senso letterale, l’opera di Gómez Dávila è stata invece (e l’una cosa perché permessa dall’altra, anche “tecnicamente”) un pellegrinaggio: un piccolo “medioevo” personale compreso tra l’inizio e il compimento della propria vicenda umana come caso specifico del grande (unico) “medioevo” ricompreso tra l’alfa e l’omega di tutto.
Un itinerario del cuore e della mente verso Dio, il suo, condotto attraverso il ricupero della dimensione originaria con cui in Occidente la metafisica nasce dall’intuizione socratica. Con Socrate (470 o 469-399 a.C.), infatti, la filosofia, che è l’amore contemplativo-attivo per la sapienza, si fa psicologia; cioè (a monte dei riduzionismi ideologici posteriori) il “discorso dell’anima”, evidentemente intessuto con i soli interlocutori che possano intenderne il linguaggio: le anime gemelle dei compagni di pellegrinaggio umani e quindi, anzitutto e soprattutto, Dio.
L’opera unica e permanente di Gómez Dávila fa capolino dapprima con le raccolte Notas, del 1954, e Textos I, del 1959, per poi uscire in una prima tranche della “versione maggiore” con il titolo di Escolios a un texto implícito nel 1977. Tardi, se si considera che da decenni il pensatore cattolico colombiano studiava, rifletteva e appuntava su carta, ma Gómez Dávila questo è: un concentrato che si distilla solo dopo decantazione lenta e lievitazione lunga. Tanto che il suo scrivere rasenta talora l’ermetismo di difficile penetrazione e che, guardato a distanza, sia spaziale sia temporale, assomiglia molto a quei giochi in cui l’occhio sintetico dell’intelligenza umana può liberare la trama che è tenuta nascosta dalle distrazioni solo riuscendo a unire punti apparentemente caotici in un ordine di significato riguadagnato e di restaurata bellezza. Nel 1986 escono quindi i Nuevos escolios a un texto implícito e nel 1992 la terza e ultima parte, Sucesivos escolios a un texto implícito. Anche se apparentemente diversi sul piano formale, sono parte integrante di questa medesima “opera permanente” i saggi El reaccionario auténtico del 1995 e De iure, del 1988.
Di questo mare magnum in italiano esistono solo estratti: Il vero reazionario , comparso sul periodico Cristianità (n. 287-288, marzo-aprile 1999); le antologie In margine a un testo implicito e Tra poche parole, entrambe curate del germanista Franco Volpi (1952-2009) ed edite a Milano da Adelphi, rispettivamente nel 2001 e nel 2007; quindi Pensieri antimoderni, a cura di Anna K. Valerio (Edizioni di Ar, Padova-Salerno 2008).
Dio non si discute
Il genere letterario è quello dell’aforisma. Massime, ma non solo. E nemmeno sempre telegrafiche: talora si tratta infatti di espressioni più articolate e quindi, su carta, lunghe. Un genere del resto antichissimo, sapienziale, che unisce l’epigramma alla giaculatoria, l’invocazione al pensiero improvviso, la supplica orante allo statement, la velocità della saetta a ciel sereno al profondo rombare di sottofondo e tutt’attorno della maestà del tuono. Una composizione di luogo adeguata – per usare il linguaggio di sant’Ignazio di Loyola (1491-1556) – la si ottiene immaginando di osservare un violento temporale estivo dall’interno di una grotta: di assistere cioè, in un momento preciso del tempo e in un punto esatto dello spazio, al big bang di una ricchezza e una potenza incommensurabili protetti da un grande abbraccio che ripara e tutto contiene, assieme materno-paterno e divino. Lo sguardo di meraviglia del primo uomo sulla Terra nella sua prima notte tempestosa che è lo stesso di ogni bimbo che viene al mondo a guardare i genitori e di ogni uomo che permette alla propria libertà di lasciarsi interrogare.
Gli “escolios” di Gómez Dávila (un titolo unico per l’opera unica di una vita) sono “glosse” a quello che lo stesso pensatore cattolico colombiano chiama (ancora un titolo unico per l’opera unica di una vita) “testo implicito”. Di che si tratta?
Le interpretazioni dei critici si accavallano, ma coglie con tutta probabilità nel segno Cantoni quando lo identifica «con l’intero corpus culturale dell’Occidente, da Omero ai contemporanei». Vale a dire il misurarsi (letteralmente) costante e continuo di Gómez Dávila con l’elaborazione culturale e quindi con l’espressione di ciò nel linguaggio (che sono cifra propria dell’umanità) di cui l’uomo, essere “capace di Dio”, si rende protagonista nel confrontarsi costitutivamente con il senso di sé e delle cose. Ancora il Socrate del famoso «Una vita non esaminata non è degna di essere vissuta».
Gómez Dávila ha insomma dialogato per una esistenza intera con i propri simili (e tra questi con coloro che più pienamente esprimono la pienezza dell’umano) di “ciò che conta” e di “ciò che ha senso” sempre sul filo del confronto serrato con “ciò che dà senso” ed è “ciò che non si dibatte”, illuminato da una profonda fede cattolica che non censura nulla dai prembula fidei ai novissimi.
Per questo, allora, quel “testo implicito” che di continuo egli ha sondato, stimolato, testato e provocato, e che di proposito mai viene esplicitato, ricorda da vicino le “dottrine non scritte” su cui la filosofia di Platone (428 o 427-348 a.C.) elabora la metafisica. Spiega bene lo storico della filosofia Giovanni Reale, anche alla sequela della cosiddetta “Scuola di Tubinga”, che Platone, facendo tesoro della lezione socratica sul “dialogo dell’anima”, insegnò la filosofia dei princìpi primi e delle cose ultime (la scienza massima cui perviene la ragione umana) affermando che la pagina scritta (le “glosse”) ha il proprio contenuto di verità piena in un sapere che non si scrive e non si dice (il “testo implicito”) perché solo si contempla (per poi agire moralmente di conseguenza nell’ordine forgiato dalla verità delle cose). Dio.
Dio non si dibatte. Nemmeno si discute. Non è oggetto di confronto né di maggioranze numeriche o di referendum. Non è democratico (non sbagliano nemmeno quei critici che identificano il “testo implicito” gomezdaviliano nella dura requisitoria contro la “democrazia come religione”, da cui l’autodefinizione di “vero reazionario” amata da Gómez Dávila). Anzi, T.S. Eliot (1888-1965), ne L’idea di una società cristiana, dice che il nostro Dio è persino geloso: non vuole dividere il trono con Mammona, o Hitler, o Stalin, o un parlamento. Dio è infatti persino ineffabile; con sant’Agostino (354-430) lo contempliamo meglio provando a dire ciò che non è che sognando di definire ciò che è. Ovvero facendo cultura: proteggendone, cioè, la “gelosia” con gli scudi del giudizio sulle cose dato con il metro che è Lui, paragonando la misura del nostro cuore al Suo, cercando l’equilibrio fra le cose che Egli ha fatto e la ragione che Egli ci ha dato, percorrendo il nostro piccolo “medioevo” personale lungo la strada del grande “medioevo” del tempo abitato, la storia, che Egli ha tracciato per noi, fissando l’appuntamento all’inizio e alla fine.
Marco Tangheroni (1946-2004), medioevista dell’Università di Pisa, ha persino saputo utilizzare le “glosse” gomezdaviliane come metodo storico, cavandone un gran libriccino, postumo, Della Storia: in margine ad aforismi di Nicolás Gómez Dávila (Sugarco, Milano 2008).
Del pensatore cattolico colombiano resta ora l’eredità, tutta ancora da metabolizzare. Quell’eredità è un metodo. Il metodo d’intendere il tempo concessoci come la continua, insistente, persino assillante, talora apparentemente petulante domanda del salmista: «Sentinella, a che punto è la notte?». Con l’impareggiabile vantaggio di poterla rivolgere all’unico Consolatore che sa rispondere scatenando l’alba radiosa.