Golpe, auto-golpe e contro-golpe, la Turchia si interroga
Chi è la mente del golpe in Turchia? Il presidente Erdogan e il governo turco puntano decisamente il dito sul rivale islamico Fethullah Gulen. Ma quest'ultimo, dal suo esilio negli Usa, rilancia l'accusa: è lo stesso Erdogan ad aver organizzato questa messa in scena per avere un potere assoluto. Mentre la gigantesca purga dei cospiratori continua.
Sono ancora molti gli aspetti oscuri dell’ultimo golpe in Turchia. Manca l’elemento centrale: chi lo ha organizzato? E’ una domanda che sta caratterizzando il duello a distanza fra il presidente Recep Tayyip Erdogan e il suo principale rivale (ex alleato), il politologo e predicatore Fethullah Gulen. Secondo Erdogan è lui la mente del fallito colpo di Stato. Gulen, dal suo esilio volontario negli Usa, risponde: è una messinscena dello stesso Erdogan. E molti turchi, prima ancora di attendere questa dichiarazione, gli credono.
Lo scambio di accuse su chi sia stato l’organizzatore, la mente del colpo di Stato, è reso possibile dal basso profilo dei suoi attuali protagonisti. Tutti i golpe hanno il loro uomo forte, che si impone sugli schermi televisivi promettendo ordine e pace sociale, anche se al prezzo della forza. In Turchia non c’è stato niente di simile. Anonimi “militari” hanno occupato sedi televisive e punti chiave delle due principali città per insediare un altrettanto anonimo “consiglio di pace”. Il mistero sull’assenza di volti e uomini forti ha permesso da subito ai teorici della cospirazione di entrare in azione. I turchi all’opposizione paragonano il mancato colpo di Stato all’incendio del Reichstag del 1933, quello che Hitler attribuì ai comunisti e gli permise di emettere leggi e provvedimenti speciali che trasformarono il suo governo in dittatura. Il parallelo fra il golpe del 16 luglio e l’incendio del Reichstag sta facendo il giro del web e in Turchia è diventato un trend topic nei social network. Dall’altra parte, sin dalla notte stessa del fallito colpo di mano, i sostenitori di Erdogan, in Turchia e all’estero, hanno iniziato ad accusare gli Stati Uniti di essere alle spalle dei golpisti. Una tesi che è stata rilanciata ieri dal ministro del Lavoro del governo Yildrim, immediatamente smentita da un indignato segretario di Stato John Kerry (che nelle ore decisive aveva invece appoggiato Erdogan e delegittimato i suoi avversari).
Entrambe le teorie del complotto comportano conseguenze pratiche. Il principale accusato è Gulen, uno dei protagonisti dell'islam politico turco sin dagli anni '90, ex alleato di Erdogan (almeno fino al 2013) e alla testa di un vasto movimento politico e religioso, con scuole e ramificazioni anche negli Usa e in Europa. I membri del suo movimento, Hizmet, o tutti coloro che sono considerati in contatto con il suo ambiente, sono le prime vittime della gigantesca purga in corso in Turchia: 9mila militari e 3mila giudici finora arrestati (“e ne arresteremo altri 6mila” annuncia minacciosamente il ministro della Giustizia). Gli Usa stessi sono entrati nel mirino: la base aerea di Incirlik, usata anche dagli Stati Uniti per condurre la campagna contro l’Isis, è rimasta chiusa per più di ventiquattro ore, posta letteralmente in stato di assedio e liberata solo ieri sera. Secondo le autorità turche sarebbe stata usata da aerei “dirottati” dai golpisti e la sua chiusura è stata intesa anche come una forma di pressione per chiedere l’estradizione di Gulen. Che il governo statunitense, per altro, non concede.
Ma che dire del rapporto di minoranza, cioè della tesi dell’auto-golpe di Gulen? Non si tratta di una vera e propria accusa, ma di una battuta, espressa come replica piccata alle accuse del governo turco: “C’è la possibilità che si sia trattato di un colpo orchestrato dal governo stesso, quale pretesto per lanciare nuove accuse” contro gli oppositori. Nella stessa intervista, una delle poche che ha rilasciato alla stampa dal suo esilio in Pennsylvania, Usa, Gulen si difende affermando di aver ormai pochi contatti (vivi e liberi) in Turchia. Sicuramente non avrebbe potuto orchestrare una sollevazione militare di quelle dimensioni.
Chi punta il dito contro Erdogan e ritiene che il fallito golpe sia la versione turca dell’incendio del Reichstag, usa soprattutto l’argomento del “cui prodest”. Non è mai un metodo logico per trovare un colpevole, visto che è un ragionamento a posteriori. Ma serve a descrivere bene la situazione attuale. Una volta che ha vinto la sua ultima battaglia contro l’esercito, il presidente ha mani libere per portare a termine la tanto contestata riforma costituzionale e anche per renderla ancora più autoritaria, può arrestare tutti i suoi oppositori nell’esercito e nella magistratura e addirittura ucciderli, reintroducendo la pena di morte per alto tradimento. La Turchia può concretamente diventare una dittatura, dopo anni di deriva autoritaria. Sta emergendo un potere molto più arbitrario rispetto alla presa del potere di una giunta militare, anche perché è appoggiato dalle masse islamiche. Con una retorica molto simile a quella usata da tutti i regimi totalitari, anche Erdogan sta lanciando la sua mobilitazione permanente, continua a ripetere il momento magico in cui lui chiamò la popolazione alla resistenza e gli imam lanciarono il loro appello alla mobilitazione dai minareti. Sono masse “democratiche” che picchiano i soldati prigionieri e quando possono li uccidono. Sono masse che si sentono al potere, dietro al loro uomo forte, stavolta ben visibile e ben saldo sul trono. Quella notte del 16 luglio appare ormai come la sua rivoluzione. Non semplicemente come un fallito colpo di Stato.