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IL CASO

Golden Globe, ipocrisia dell'indignazione pilotata

Cinque minuti di indignazione non si negano a nessuno. Ci si sente parte della massa critica: impegnata a salvare il mondo. Eppure questa forma di indignazione è, nella maggior parte dei casi, pilotata. Come dimostra il caso dei Golden Globe. Tutti indignati per protestare contro le molestie sessuali nel mondo dello spettacolo. Tutti più o meno coinvolti. 

Editoriali 10_01_2018

Qualche anno fa venne pubblicato un pamphlet dal titolo involontariamente comico: Indignatevi! Comico per me che sono allergico ai social media perché ho scoperto che lì, in quegli ambienti virtuali, «Indignatevi!» è la parola d'ordine più usata. Basta una foto, una notizia (vera o falsa che sia), uno slogan e parte l'indignazione a comando: per il cane abbandonato, i bambini dello Yemen colpiti da armi italiane, i bambini siriani vittime del regime, le parole irrispettose di quel politico o cantante...Insomma: cinque minuti di indignazione non si negano a nessuno.

Ci si sente parte della massa critica: impegnata a salvare il mondo, informata, intelligente, sensibile... la parte migliore dell'umanità. La massa, insomma. E, dopo i cinque minuti di indignazione, si riparte con il «Buongiornizzimoooo!» e la foto del caffè. Indignarsi non costa nulla e lava la coscienza. Quale sarà il cattivo di domani? Me lo dirà un post. Nessuno mette in dubbio che il tutto sia assolutamente spontaneo e genuino.

Eppure questa forma di indignazione è, nella maggior parte dei casi, pilotata. Gli autori dei messaggi sono dei professionisti chiamati «influencer»; ne ha anche l'Unione Europea, e vengono utilizzati anche per «costruire» una narrazione di guerra. Anche le famose «manifestazioni spontanee» sono molto poco spontanee; solitamente hanno un'organizzazione professionale e importanti finanziatori. 

E utilizzano i colori. Alla marcia delle donne a Washington, ad esempio, i partecipanti indossavano (spontaneamente, ovviamente) un cappello rosa. Qualcuno ricorderà il «popolo viola» che – spontaneamente – tentò di cacciare Berlusconi con girotondi e sciarpe di cashemere (viola, appunto). Il colore – lo sa bene chi organizza queste manifestazioni spontanee – ha la funzione di una bandiera, di un'uniforme. Identifica, condensa in un messaggio visivo tutta una serie di significati. Basti pensare ai foulard rossi indossati dai comunisti negli anni Settanta, o alle camicie verdi della Lega...

L'ultimo colore lo abbiamo visto in questi giorni sul palco del Golden Globe, il premio statunitense per i programmi televisivi. Attori e star della televisione si sono fatti fotografare (con qualche eccezione) vestiti di nero. È questo il colore scelto dai promotori della campagna Time's up per protestare contro le molestie sessuali nel mondo dello spettacolo.

Peccato che, vestiti di nero con la spilla Time's up ci fossero anche James Franco (accusato di aver tentato di abbordare una minorenne nel 2014), Armie Hammer (che ha definito gli episodi di pedofilia dei quali è accusato Polanski «una zona grigia» e ha difeso pubblicamente l'attore Nate Parker, accusato di stupro), David Harbour (che ha lavorato in una recente serie televisiva di Woody Allen), Ewan McGregor (che ha recentemente lavorato sia con Allen che con Polanski), Justin Timberlake (ha lavorato recentemente con Polanski), Christian Slater (accusato di abusi sessuali e condannato per aver aggredito la sua fidanzata) e Ryan Seacrest (recentemente accusato di abusi sessuali).

Dicevamo: indignarsi non costa nulla e lava la coscienza.