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IL DISCORSO

Globalità sì, globalismo no: il mondo dopo la pandemia

L'emergenza della pandemia è stata usata spesso come pretesto per promuovere un'agenda globalista e imporre politiche altrimenti impossibili da fare accettare. Il globalismo è il contrario della globalità, realtà dell’unità del genere umano accomunato da un unico destino e caratterizzato da relazioni umane fondamentali per la sua vita. Pubblichiano il testo della conferenza tenuta da monsignor Giampaolo Crepaldi, arcivescovo di Trieste, lo scorso 19 maggio.

Cultura 28_05_2022
Monsignor Crepaldi

Pubblichiano il testo della conferenza tenuta da monsignor Giampaolo Crepaldi, arcivescovo di Trieste lo scorso 19 maggio, dal titolo: "Globalismo e globalizzazione: il mondo dopo la pandemia"

In questa conversazione mi propongo di svolgere il  mio intervento in due momenti. Dapprima cercherò di mettere a fuoco la corretta concezione della globalizzazione e del globalismo, tenendo conto delle principali indicazioni in questo campo della Dottrina sociale della Chiesa. Mi riferisco non solo ai passaggi in cui le encicliche sociali affrontano direttamente l’argomento, ma soprattutto ai principi di riflessione e ai criteri di giudizio del magistero sociale della Chiesa. Ritengo che una serie di precisazioni iniziali siano fondamentali per costruire un quadro di riferimento adeguato per questo seminario. In un secondo passaggio entrerò più specificamente nel titolo che mi è stato assegnato, con alcune riflessioni sulla pandemia che ha interessato il pianeta negli ultimi due anni. Si tratterà di vedere se essa ha favorito una globalizzazione corretta e conforme ai principi che avremo evidenziato nella prima fase, oppure no. Infine terminerò con brevi suggerimenti sulla ripartenza dopo la crisi.

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La prima distinzione utile e per certi versi indispensabile a farsi, è quella tra globalità, globalizzazione e globalismo. La globalità è la realtà dell’unità del genere umano accomunato da un unico destino e caratterizzato da relazioni umane fondamentali per la sua vita. Non si tratta solo di una unità esistenziale, accertabile di fatto mediante l’analisi dei fenomeni di interconnessione. Questa sarebbe una unità solo superficiale e accidentale, a proposito della quale la Caritas in veritate afferma che ci rende più vicini ma non più uniti. La globalità è un fatto antropologico, è una dimensione vera e reale della vita umana e, almeno potenzialmente, c’è sempre stata. La globalizzazione è invece il processo per cui i fenomeni della vita si mostrano sempre più interconnessi a seguito dello sviluppo scientifico e tecnologico ma anche di quello culturale. La comunicazione, l’economia, i movimenti sono sempre più integrati. Quello della globalizzazione è un processo di fatto in atto e, quindi, la parola non esprime nessuna valutazione assiologica. Come tutti i processi esso richiede di essere governato e indirizzato ed è su questo punto – il suo governo – che si deve esprimere una valutazione. Il criterio principale per questa valutazione è che il processo di globalizzazione deve essere finalisticamente orientato dalla globalità, ossia dal bene del genere umano su cui si fonda la sua unità C’è poi il termine globalismo che indica la degenerazione della globalizzazione quando diventa pericolosa per il bene del genere umano, ossia per la globalità. Il globalismo è l’ideologia della globalizzazione, è un concetto artificiale funzionale ad interessi di parte. Per questi motivi l’aggettivo “globale” oggi è ambiguo e viene adoperato a seconda degli interessi ideologici in vari significati, ciò non aiuta a chiarire la problematica della globalizzazione.

Vorrei ora approfondire meglio come la Dottrina sociale della Chiesa vede quanto ho chiamato l’unità del genere umano e che fa da fondamento per ogni discorso sulla globalizzazione. L’unità del genere umano si colloca a tre livelli e la visione cristiana non deve tralasciarne nessuno. Il primo livello possiamo definirlo ontologico. Gli uomini hanno una medesima natura umana, sono collocati allo stesso livello nell’ordine naturale dell’essere, esprimono una “fraternità nell’essere”. Da questo deriva la grammatica naturale che permette loro di capirsi e la legge morale naturale e universale. C’è poi un livello morale o pratico che possiamo chiamare di “fratellanza nel bene”. Nel male è impossibile fraternizzare ed essere uniti. Ad unire praticamente le persone è sempre solo il fine, ossia il bene comune. Da qui deriva il concetto corretto di “cittadinanza universale”, oggi spesso abusato. Tale cittadinanza ha una base ontologica e morale fondata su quanto ho chiamato la “fraternità del bene”. Infine c’è l’aspetto religioso e salvifico dell’unità del genere umano, fondata sull’incorporazione a Cristo, Unico Capo del suo Corpo Mistico e basata sulla partecipazione alla sua Grazia.

È bene ricordare che questi tre livelli non sono da intendere come tre scalini successivi, che si aggiungono l’uno all’altro, ma come un ordine in cui certamente prevale l’ultimo di essi, ma in una specie di circolarità complementare come avviene nel rapporto tra la fede e la ragione. I tre livelli vanno distinti e perseguiti per sé in quanto dotati della loro legittima autonomia, ma non vanno mai separati perché in questo caso andrebbero perduti. Il livello che possiamo chiamare “superiore” è fondamentale per permettere al livello “inferiore” di essere se stesso. Sottolineo questo aspetto perché certamente esiste una fratellanza ontologica, autonoma al suo proprio livello, ma senza la fratellanza nel bene (morale) e in Cristo (religiosa) anche quella ontologica viene perduta di vista. C’è senz’altro una “amicizia civica”, nota anche ad Aristotele, ossia alla filosofia in quanto tale, ma senza l’amicizia in Cristo, senza la presenza di Dio, non si dà pienamente alcuna fraternità civica. Questo afferma la Dottrina sociale della Chiesa che distingue per unire e unisce per distinguere.

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Nella filosofia politica contemporanea e nelle principali correnti delle scienze sociali di oggi si parla pure e insistentemente di una unità globale. C’è oggi una forte tendenza all’universalismo e al globalismo nell’intento di integrare tutto il mondo in una sola comunità universale dotata di un’unica morale e di una unica religione civile. Si tratta però di una visione artificiale, dato il passo decisivo della mentalità moderna verso la società come artificio, come costruzione umana a seguito di un patto, come convenzione. I tre livelli di cui ho parlato sopra – ontologico, morale, religioso – sono rifiutati da una visione pattizia e consensuale della società, compresa la società universale. La storia ci ha dato molti esempi di una simile visione: Tommaso Campanella, Hobbes, Rousseau, l’illuminismo, Kant, le utopie socialiste e anarchiche, Saint-Simon, Comte, il comunismo nelle sue varie accezioni, gli obiettivi universalisti massonici e così via.

Le versioni di questo genere non possono evitare di trasformare la globalità in globalismo, per tornare ai due concetti evidenziati sopra, dato che si fondano su un patto artificiale mancante volutamente di presupposti. Ne consegue che tali visioni dell’unità del genere umano e della globalizzazione avranno carattere utopistico (non fondate su cosa è ma su cosa sarà), violento (perché innaturali), rivoluzionario (incentrate su ciò che si vuole che sia), dispotico e ateo, ossia tendente ad una nuova religione civile globale vagamente umanistica. Tutti fenomeni, questi, che possiamo riscontrare anche oggi. In questa visione artificiale della globalizzazione la dimensione universale sarà costituita da un accostamento di individui collegati esteriormente in una massa globale, che danno il loro consenso ad una serie di principi artificiali imposti dal prevalere di una cultura e una religione artificiali. Una simile visione, oggi molto avanti nella realizzazione, non rispetta l’ordine naturale e finalistico della società e nemmeno i principi della Dottrina sociale della Chiesa, compreso quello di sussidiarietà. In questa visione, le famiglie, i popoli e le nazioni tendono ad essere centrifugati in una marmellata universale dai caratteri stabiliti dai potenti di turno.

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Vorrei passare ora ad alcune considerazioni sulla pandemia e sul dopo-pandemia in relazione alle problematiche della globalizzazione. L’epidemia connessa con la diffusione del “COVID-19” ha avuto un forte impatto su molti aspetti della convivenza tra gli uomini. Il contagio è stato prima di tutto un evento di tipo sanitario e già questo lo collega direttamente con il fine del bene comune, di cui la salute fa certamente parte. Nel contempo pone il problema del rapporto tra l’uomo e la natura e ci invita a superare il naturalismo oggi molto diffuso e dimentico che, senza il governo dell’uomo, la natura produce anche disastri e che una natura solo buona e originariamente incontaminata non esiste. Poi pone il problema della partecipazione al bene comune e della solidarietà, invitando ad affrontare in base al principio di sussidiarietà i diversi apporti che i soggetti politici e sociali possono dare alla soluzione di questo grave problema e alla ricostruzione della normalità dopo il suo passaggio.

È emerso con evidenza che tali apporti devono essere articolati, convergenti e coordinati. Il finanziamento della sanità, problema che il Coronavirus ha fatto emergere con grande evidenza, è un problema morale centrale nel perseguimento del bene comune. Urgono riflessioni sia sulle finalità del sistema sanitario, sia sulla sua gestione e sull’utilizzo delle risorse, dato che un confronto con il recente passato fa registrare una notevole riduzione del finanziamento per le strutture sanitarie. Connesse con il problema sanitario ci sono poi le questioni dell’economia e della pace sociale, dato che l’epidemia mette in pericolo la funzionalità delle filiere produttive ed economiche e il loro blocco, se continuato nel tempo, produrrà fallimenti, disoccupazione, povertà, disagio e conflitto sociale. Il mondo del lavoro sarà soggetto a forti rivolgimenti, saranno necessarie nuove forme di sostegno e solidarietà e occorrerà fare delle scelte drastiche.

La questione economica rimanda a quella del credito e a quella monetaria. Ciò, a sua volta, ripropone la questione della sovranità nazionale, facendo emergere la necessità di rivedere la globalizzazione intesa come una macchina sistemica globalista, la quale può anche essere molto vulnerabile proprio a motivo della sua rigida e artificiale interrelazione interna per cui, colpito un punto nevralgico, si producono danni sistemici complessivi e difficilmente recuperabili. Destituiti di sovranità i livelli sociali inferiori, tutti ne saranno travolti. D’altro canto, il coronavirus ha anche messo in evidenza le “chiusure” degli Stati, incapaci di collaborare veramente anche se membri di istituzioni sovranazionali di appartenenza.

Il fenomeno della pandemia da Covid-19 ha senz’altro prodotto una maggiore consapevolezza della necessità di lavorare insieme soprattutto davanti a queste crisi sistemiche. Però ha anche messo in evidenza alcune caratteristiche non condivisibili o preoccupanti circa il modo di affrontare insieme queste crisi sistemiche.

L’emergenza pandemica ha impresso una accelerazione ad alcuni fenomeni che sembrano problematici. Il primo è un nuovo evidente accentramento di potere sia a livello nazionale che internazionale. Si assiste, soprattutto in America Latina ma non solo, a nuove forme di statalismo e di neosocialismo. Il cosiddetto “Modello cinese” viene spesso imitato come possibile risposta alla crisi pandemica. A livello globale pure si è verificata una tendenza ad un accentramento, comprensibile da un lato perché il fenomeno da tenere sotto controllo era globale, ma dannoso dall’altro perché c’è stata come una grande esercitazione per il controllo centralizzato dei movimenti delle persone, la sospensione delle garanzie di libertà, la prevalenza del potere esecutivo sul legislativo e sul giudiziario, l’appello interessato agli “esperti”, la diffusione di una narrazione politica stabilita dal potere. Durante la pandemia si sono sperimentate forme di controllo e sorveglianza sociale che potrebbero essere impiegate in futuro in altri campi diversi da quello sanitario. È stata anche implementata la regola dei “crediti sociali”: se non assumi un certo comportamento non puoi usufruire di questo o quell’altro benefit sociale.

Certamente la pandemia ha aumentato la sensibilità ai problemi comuni, ma ha anche alimentato forme di individualismo, di contrapposizione, di squalificazione reciproca, di delazione, di emarginazione sociale. Ne usciamo più consapevoli della necessità di aprirci alla collaborazione, ma anche più sospettosi gli uni degli altri e anche rispetto alle autorità siano esse politiche che sanitarie.

La pandemia è stata qualificata come una grande “emergenza”, e realisticamente lo è stata. Però non si può negare che essa sia anche stata utilizzata per legittimare cambiamenti globali che senza di essa sarebbe stato difficile far accettare. Può quindi aver costituito un precedente e in futuro nuove emergenze potrebbero essere artificialmente prodotte proprio per giustificare cambiamenti strutturali. È questo un pericolo che dobbiamo tenere in conto. L’emergenza ecologica, l’emergenza demografica, l’emergenza energetica, una nuova emergenza sanitaria … domani potrebbero indurre a nuovi “Reset”. Uno di questi cambiamenti mi preme qui portare alla vostra attenzione: la transizione digitale. La digitalizzazione della vita quotidiana – dalla burocrazia all’economia alla finanza – costituisce certamente un fattore di progresso ma presenta anche il pericolo di fornire le basi tecnologiche per un sistema di controllo molto diffuso e pervasivo.

La questione dei Big Data non è di secondaria importanza. La necessità di controllare i movimenti delle persone durante la pandemia – legittima entro certi limiti – è stata sviluppata come invito a una transizione digitale che interesserà anche altri campi ed altri movimenti e finirà per riguardare la vita intera delle persone. Tra l’altro con il consenso dei cittadini, dato che essi sono impauriti dall’emergenza e quindi concedono al potere politico un raggio di azione più ampio di quanto non concederebbero in situazioni normali.

Molti fenomeni innescati dalla pandemia vengono indirizzati ad una globalizzazione intesa come globalismo. Si parla di creare una società di non-possidenti, con l’abolizione della proprietà privata sostituita da uno sharing universale senza chiarire chi avrà la proprietà delle cose da condividere. Si prospetta una ideologia ambientale globalista antinatalista ed antifamilista. Si vorrebbe creare una religione universale priva di dogmi e che consiste in “buone pratiche” sociali che però non si sa chi le debba stabilire.

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Vorrei ora intrattenermi brevemente a considerare alcuni aspetti della ripartenza dopo la crisi. Tutti, infatti, ci interroghiamo sui punti di partenza per la ripartenza dopo la pandemia. Vorrei qui indicarne tre: ripartire dalla coscienza, ripartire dalla ragione, ripartire dalla fede.

Ripartire dalla coscienza. La ripartenza dovrà prima di tutto fondarsi sulla coscienza. Dobbiamo realisticamente chiederci se nella attuale situazione politico-sanitaria ci si sia veramente preoccupati di alimentare il giudizio della coscienza personale. Spesso le decisioni sono state dettate dall’imitazione, dall’obbligo indiretto, dalla fretta, sulla parola di uno o dell’altro esperto, affidandosi ad una o all’altra delle narrazioni in campo, dentro un mare di informazioni confuse e contraddittorie in cui spesso la coscienza è naufragata. Quando la coscienza si addormenta, quando ci si abitua a risolvere senza troppa fatica questioni che invece sono complesse, quando ci si scontra tra di noi non con argomentazioni ma con scelte assunte “per sentito dire” o per “parte presa”, i danni sono destinati a ripercuotersi a lungo.

Nel suo famoso libro “Il potere” del 1951, Romano Guardini aveva messo in luce il pericolo che il potere fosse separato dalla responsabilità: “La progressiva statalizzazione dei fatti sociali, economici, tecnici – e noi potremmo aggiungere, sanitari – e insieme le teorie materialistiche che concepiscono la storia come un processo necessario significano il tentativo di abolire il carattere della responsabilità accettata, di scindere il potere dalla persona”. Guardini, nella stessa opera, mette in guardia da un pericolo che anche oggi stiamo vivendo, ossia quello del potere “anonimo”: “Può anche avvenire che dietro di esso – ossia del potere – non ci sia alcuna volontà a cui ci si possa rivolgere, nessuna persona che risponda, ma solo una organizzazione anonima”, e sembra che l’azione passi attraverso le persone come semplici anelli di una catena.

Ripartire dalla ragione. Durante la pandemia la ragione scientifica non è stata utilizzata per quello che è, ossia nei suoi successi e nei suoi limiti. In certi casi la scienza è stata esaltata, andando ben oltre la saggia umiltà di molti scienziati ben consapevoli del suo carattere ipotetico. In altri casi è stata svilita e accusata di complicità col potere politico, il quale del resto – occorre riconoscerlo – l’ha utilizzata altrettanto spesso per i propri scopi, nascondendosi dietro l’espressione “lo dice la scienza”. Il piano empirico della raccolta dei dati, quello scientifico teso ad informare sui contenuti scientifici delle scelte in campo, il piano etico della valutazione morale in vista del bene sia personale che interpersonale, il livello politico teso a considerare il tutto della comunità politica per agire in vista del bene comune, senza riduzionismi a logiche di parte, siano esse quelle delle industrie farmaceutiche o quelle degli imprenditori o quelle dei sindacati eccetera …  sono piani distinti tra loro e nello stesso tempo collegati.

Ricominciare dalla Fede. La Chiesa non confonde mai la salute, nel senso sanitario del termine, con la salvezza. La Chiesa non aiuterà la comunità a vincere la sfida sulla “salute” diventando una agenzia “sanitaria” ma proponendo la “salvezza”, che dall’alto della vita di grazia scende anche in basso a fecondare la vita sociale.

Mi avvio alla conclusione. L’emergenza dell’epidemia in atto interpella in profondità la Dottrina sociale della Chiesa. Questa è un patrimonio di fede e di ragione che in questo momento può dare un grande aiuto nella lotta contro l’infezione, lotta che deve riguardare tutti i grandi ambiti della vita sociale e politica. Soprattutto può dare un aiuto in vista del dopo-coronavirus. Serve uno sguardo di insieme, che non lasci fuori nessuna prospettiva veramente importante. La vita sociale richiede coerenza e sintesi, soprattutto nelle difficoltà, ed è per questo che nelle difficoltà gli uomini che sanno guardare in profondità e in alto possono trovare le soluzioni e, addirittura, le occasioni per migliorare le cose rispetto al passato.

* Arcivescovo di Trieste