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LO SCENARIO

Gli Usa raccolgono diffidenza tra Kabul, Iraq e Siria

Il segretario alla Difesa Esper rincuora il governo afghano che gli Stati Uniti non intendono ritirarsi come hanno fatto dal nord-est della Siria dove hanno voltato le spalle alle milizie curde di fatto consentendo l'offensiva turca. Ma l'approccio da ritiro di Trump non sta rafforzando la fiducia negli USA da parte di alleati e partner mediorientali.

Esteri 31_10_2019

Nella sua recente visita a Kabul il segretario alla Difesa statunitense Mark Esper ha cercato di rincuorare il governo afghano e il presidente Ashraf Ghani assicurando che gli Stati Uniti non intendono ritirarsi come hanno fatto dal nord-est della Siria dove hanno voltato le spalle alle milizie curde di fatto consentendo l'offensiva turca.

Washington mantiene un "impegno di lunga data" in Afghanistan verso il quale la politica americana è completamente differente. "Tutto ciò dovrebbe rassicurare i nostri alleati afghani che non dovrebbero fraintendere le nostre azioni nell'ultima settimana nei confronti della Siria e vedere le differenze con l'Afghanistan" ha detto Esper il 21 ottobre.  

La visita, la prima del segretario alla Difesa in Afghanistan da quando è entrato in carica a luglio, arriva in un momento di grande incertezza per la missione militare Usa nel paese dopo la fine dei colloqui con i Talebani ma soprattutto in un clima di generalizzata diffidenza degli alleati nei confronti di Washington.

I colloqui tra Stati Uniti e Talebani si sono conclusi all'inizio di settembre, quando il presidente Donald Trump li ha sospesi dopo la morte di un soldato americano in un attacco, probabilmente un pretesto per giustificare uno stop alle trattative sul ritiro imposto dalle pressioni di Pentagono, intelligence e Dipartimento di Stato.

L'inviato speciale degli Stati Uniti, Zalmay Khalilzad, da allora ha però avuto colloqui informali con i leader Talebani in Pakistan e lunedì è stato reso noto che gli Stati Uniti hanno accolto con favore la proposta cinese di ospitare un incontro tra rappresentanti del governo afghano e talebani.

La settimana scorsa, i talebani avevano fatto sapere di essere stati invitati da Pechino per un secondo round di incontri dopo i colloqui tenutisi, a luglio in Qatar, co-organizzati dalla Germania e Khalilzad ha incontrato i colleghi da Cina, Russia e Pakistan, la settimana scorsa, a Mosca dove i quattro Paesi hanno rinnovato il sostegno per un "accordo di pace completo e sostenibile".

Le quattro nazioni "hanno accolto con favore la proposta cinese di ospitare i prossimi colloqui inter-afghani a Pechino", si legge nel comunicato stampa congiunto diffuso dagli Stati Uniti. Al momento non c’è ancora chiarezza però sulla data dei colloqui anche perché resta l’ostacolo frapposto dai Talebani che rifiutano di negoziare formalmente con il governo di Kabul.

Nonostante la possibile ripresa dei negoziati, le rassicurazioni fornite da Esper a Kabul e lo stop ai negoziati coi Talebani il numero dei soldati statunitensi in Afghanistan si è già stato ridotto (alla chetichella) di almeno 2.000 unità nel corso del 2019, con il contingente Usa che ora non conta più di 12 mila effettivi.

Lo ha ammesso, come riporta il New York Times, il comandante delle forze americane nel paese, il generale Austin Miller. Il graduale calo della presenza Usa in Afghanistan sta avvenendo nonostante si sia ancora lontani da un accordo di pace con i talebani e alcune fonti militari confermano che l'obiettivo è quello di ritirare in questa fase almeno 8.600 soldati su 14 mila presenti alla fine del 2018.

Il livello numerico di forze americane e NATO è già ora talmente basso da rendere impossibile il sostegno alle forze afghane in tutto il territorio afghano e con il ritiro previsto la situazione non potrà che peggiorare anche se gli USA hanno incrementato le incursioni aeree.

Secondo i dati forniti dal Central Command nel settembre scorso sono state effettuate 948 missioni di bombardamento in Afghanistan, il numero più un alto in un solo mese dall’apice del conflitto nel 2010 quando le incursioni aeree nel mese di ottobre furono 1.043.

Le incursioni aeree americane erano scese da 2.365 nell’intero 2014 a sole 947 nel 2015 per poi salire rapidamente nel 2016 con 1.337 missioni di bombardamento cresciute a 4.361 nel 2017 e 7.362 nel 2018 mentre dall’inizio del 2019 a fine settembre i raid aerei sono stati 5.431.

Una conferma concreta della crescente pericolosità degli insorti che ben giustifica le preoccupazioni di Kabul per il progressivo ritiro dei militari statunitensi.

Anche perché, accordo con i Talebani o meno, il presidente Donald Trump sembra puntare decisamente a ritirare un numero considerevole di forze militari dai teatri operativi in Medio Oriente e Afghanistan da spendere in termini di consenso in vista delle elezioni presidenziali del novembre 2020 in cui cerca un secondato mandato.

Un approccio che non sta certo rafforzando la fiducia negli USA da parte di alleati e partner. Ha colpito l’inedita dichiarazione del governo iracheno che il 22 ottobre scorso ha visto entrare nel suo territorio un migliaio di soldati americani ritirati dalla Siria. Un comunicato dell’esercito di Baghdad ha annunciato che queste truppe statunitensi non hanno il permesso di rimanere nel Paese sottolineando che non c'è stato alcun via libera alla loro permanenza in Iraq. Il comunicato ha contraddetto quanto affermato dal Pentagono, secondo cui tutti i soldati statunitensi che stavano lasciando la Siria sarebbero stati rischierati a tempo indeterminato nel settore occidentale dell'Iraq da dove “continueranno a condurre operazioni contro l'Isis”.

Dei circa 700 militari Usa che hanno lasciato la Siria nei giorni scorsi circa 500 sono rientrati nel paese arabo per occupare i pozzi di petrolio, ufficialmente per difenderli dall’Isis ma in realtà per impedire che il governo siriano ne assuma il legittimo controllo.