Gli Usa e il Messico, in bilico fra Trump e l'amnistia
Il miliardario Donald Trump continua la sua corsa per le presidenziali, conquistando il cuore e la mente del 22% dell'elettorato conservatore americano. Il segreto del suo successo? Toni durissimi sull'immigrazione. Un fenomeno che riguarda 11 milioni di clandestini. Di fronte a un fenomeno epocale, l'America si divide e si chiede che fare. Forse la risposta va oltre i suoi confini.
A parte Hillary Clinton, che è sulla bocca di tutti nel bene (come probabile prossima presidente donna, sarebbe la prima nella storia statunitense) e nel male (per lo scandalo delle sue email istituzionali gestite privatamente), c’è un solo candidato delle prossime primarie, in vista delle presidenziali, di cui si parla sempre e ovunque: Donald Trump. Il segreto della sua visibilità? L’immigrazione.
La media dei sondaggi nazionali, effettuata da Real Clear Politics, lo dà in vantaggio di 12 punti rispetto a Jeb Bush (e tutti gli altri sono dietro), un 22% contro 10% che, si votasse oggi, gli garantirebbe la candidatura ufficiale del Partito Repubblicano. Ovviamente siamo in agosto, le primarie repubblicane inizieranno fra cinque mesi, dunque è ancora troppo presto per fare previsioni attendibili. In questi cinque mesi può già cambiare molto e la campagna per le primarie scombinerà le carte in gioco, come sempre. Prima di predire un duello Trump contro Clinton, il miliardario eccentrico contro la democratica liberal dei salotti buoni, si deve avere molta pazienza. Un dato, però, è innegabile: Trump, nonostante i suoi toni polemici, che vanno oltre i limiti dell’insulto, ha conquistato il cuore e la mente di una grande fetta dell’elettorato conservatore americano. Come si spiega? A parte la grande voglia di ribellione contro un establishment prigioniero del politically correct, Trump deve il suo successo a una campagna elettorale tutta contro l’immigrazione. Anche perché il fenomeno dell’immigrazione clandestina, soprattutto negli Stati del Sud, è decisamente più drammatico che da noi.
Un po’ di cifre servono a comprendere le dimensioni del fenomeno. In Italia, i clandestini sbarcati sulle nostre coste in otto mesi si aggirano sui 150mila dall’inizio dell’anno, di più (in proporzione) rispetto ai 170mila in tutto il 2014 e il quadruplo rispetto ai 43mila del 2013. Prima del 2012 si parla di cifre molto inferiori. Il numero di clandestini presenti in Italia (non regolarizzati e non espulsi dal paese) è un mistero statistico. La cifra più ricorrente parla di 30mila clandestini e risale al 2013. Sottraendo al totale i clandestini espulsi, il Secolo XIX segnala 80mila casi di clandestini che potrebbero essere ancora nel nostro paese. Comunque sotto le 100mila unità. E in America? Secondo i calcoli del Pew Hispanic Center, la media annuale delle persone che passano il lungo confine (di terra, nel loro caso) dal Messico agli Stati Uniti è stata di 130mila all’anno negli anni ’80 (ai livelli dell’Italia), di 450mila all’anno dal 1990 al 1994, poi 750mila all’anno dal 1995 al 1999 e infine, dai 700mila agli 850mila dal 2000 ad oggi. Anche negli Usa non esistono dati ufficiali sui clandestini presenti sul territorio, ovviamente. Le stime, però, parlano di una popolazione sotterranea che va dai 7 ai 20 milioni di persone, più probabilmente 11,5 milioni: una nazione europea di medio-piccole dimensioni vive senza documenti negli Usa, moltissimo anche per una nazione continentale con 300 milioni di cittadini.
Negli Stati Uniti è molto rara un’immigrazione da paesi musulmani. Il terrorismo è ancora al centro delle preoccupazioni sulla sicurezza nazionale, ma non è direttamente associato all'immigrato, come invece avviene nell’opinione pubblica italiana. Sono però altre le preoccupazioni dell’americano medio, soprattutto quello che vive nel Sud, a ridosso del Messico: l’esportazione della droga e la violenza associata ai cartelli del narcotraffico che sfruttano con profitto anche la tratta dei clandestini, il lavoro nero e il relativo giro mafioso che si genera attorno ad esso, le gang della malavita latino-americana che terrorizzano le periferie. La Mara Salvatrucha, responsabile dell’aggressione a un controllore delle Trenord, a Milano, è nata da immigrati salvadoregni di Los Angeles, tanto per fare un esempio vicino. A tutti questi problemi di ordine pubblico se ne aggiunge uno di ordine culturale. Contrariamente agli immigrati europei, quelli dell’America latina tendono a rimanere aggrappati alla lingua e alle tradizioni di casa, si integrano meno, rischiano di far saltare il tradizionale melting-pot, la via americana all’assimilazione. Il politologo Samuel Huntington, nel suo noto Lo Scontro delle Civiltà, già parlava di un “problema multiculturale” in Nord America nel 1993: è più facile che gli Usa diventino una nazione bilingue e bi-culturale prima che i latinoamericani imparino tutti l’inglese e si adeguino alla American Way of Life.
Tutti questi timori messi assieme hanno già provocato un braccio di ferro sulla gestione dell’immigrazione, fra il governo locale dell’Arizona e il governo federale nel 2010. La Corte Suprema, nel 2012 ha spiccato una sentenza a favore del governo federale, che però lascia intatte alcune delle regole stabilite dalla legge sull’immigrazione dell’Arizona. Il malumore del Sud si è poi concretizzato ancor più chiaramente dopo l’elezione di Barack Obama, nell’inverno 2012-2013, quando, con una petizione online, milioni di cittadini hanno chiesto (solo simbolicamente) la secessione dagli Usa. Nessuno ha affrontato il problema di petto. Barack Obama alterna la silenziosa implementazione della legge (2 milioni di espulsi) con la proposta di ampi condoni, fra cui l’amnistia concessa per decreto nel novembre 2014 a 5 milioni di clandestini, due volte la popolazione di Roma. La risposta repubblicana latita, fra proposte di snellimento delle pratiche dell’immigrazione (proposta dal senatore e candidato Rand Paul) alle leggi più dure per chi non lavora. Marco Rubio, candidato di origine cubana, pende decisamente più dalla parte di Obama e ha appoggiato l’amnistia. Anche considerando che le elezioni presidenziali del 2012 sono state vinte dai democratici anche grazie al massiccio voto della minoranza (legale) latino-americana, che chiede ricongiungimenti familiari e regole più snelle per immigrare.
Donald Trump sfrutta questo vuoto politico, dando voce al profondo Sud, proponendosi come giustiziere con misure ai limiti dell’autoritarismo. Disconosce il tradizionale jus soli, garantito dal 14mo Emendamento della Costituzione statunitense e propone il respingimento (anzi, la deportazione) persino dei bambini nati e vissuti negli Stati Uniti, se figli di clandestini. Li chiama “anchor babies”, i bambini che fanno da ancora alle loro famiglie. Propone di espellere 11 milioni di immigrati illegali, non si sa bene con quali mezzi e metodi. Vorrebbe sequestrare le rimesse degli immigrati non regolari, accusando il Messico di far profitti illegalmente su di esse, con un business stimato in 22 miliardi di dollari. Vuole alzare le tariffe sui visti, anche quelli diplomatici, per chiunque arrivi dal Messico e iniziare a concederli col contagocce. Infine, quale proposta-bomba, intende trasformare la barriera del confine meridionale in un vero e proprio muro militarizzato… a spese del governo messicano. Si tratta di proposte che vanno ben oltre i limiti della realizzabilità, cozzano contro il buon senso (soprattutto per quanto riguarda gli anchor-bay) e la carità, rappresentano l'opposto di quanto predicato dalla Chiesa cattolica statunitense. Eppure un Sud conservatore esasperato, che si sente abbandonato, è pronto a dargli il voto.
Il problema sta nel vuoto politico, in mezzo alle posizioni estreme del condono per tutti voluto da Obama e dell’espulsione massiccia e militarizzata chiesta da Trump. Quella dal Sud al Nord America non appare più come un fenomeno contingente, affrontabile con misure emergenziali, ma come un esodo della popolazione da un continente all’altro. Lo stesso fenomeno che si sta verificando in Europa, con l’emigrazione dall’Africa. Creare un filtro per selezionare chi è in regola e chi no, chi può entrare e chi no, sta risultando impossibile anche agli occhi degli americani, nazione fondata sull’immigrazione. La soluzione potrebbe non trovarsi più nella sola politica nazionale americana, ma a livello mondiale. Non è una soluzione facile, poiché finora, anche nei consessi internazionali, ogni governo tende a promuovere i propri interessi e a scaricare i problemi sui vicini. Ma iniziare a discuterne, a livello sopra-nazionale, non farebbe male.