«Gli italiani non hanno più nulla da dire»
Al tempo della crisi calano i consumi ma c'è il boom di spese per la chirurgia estetica. Il presidente del Censis Giuseppe De Rita: «La nostra identità è ridotta al corpo e lo si vede anche da altri dati: si legge sempre meno, si fuggono sfide e impegni».
Fenomenologia della società impersonale è il tema della tavola rotonda organizzata dal Censis che martedì 25 giugno ha mostrato i dati di una società - europea e italiana – in crisi non solo economica, ma sociale e culturale. Una crisi di identità che si riversa, statisticamente, sui consumi e su un imbarbarimento dei rapporti interpersonali. All'incontro partecipava anche il presidente del Censis prof. Giuseppe De Rita, che la Nuova Bussola Quotidiana ha voluto intervistare:
Quali consumi sono aumentati in questo periodo di crisi?
Come abbiamo detto, in generale l'aumento dei consumi tocca tutti quei prodotti che interessano il corpo: dai cosmetici ai tatuaggi e alla chirurgia estetica. Sembra quasi che il corpo debba essere il primo fattore a dare un'immagine di sé, e di conseguenza deve essere "superiore", mostrare identità mediante simboli. Il problema è che, di conseguenza, l'identità venga limitata al solo corpo, per cui esso diventa strumento per comunicare ciò che altrimenti, per mancanza di riflessione, non sapremmo dire in altro modo.
Come mai?
Abbiamo molto poco da dire, noi italiani: non leggiamo, non riflettiamo, non maturiamo senso critico. Pensi che si è rilevato una crescita del 54 per cento di lettori che, nel corso di un anno, non leggono neppure un libro. Anche i quotidiani e le riviste riscuotono sempre meno interesse, le notizie principali passano attraverso la televisione, dove spesso vince l'appello ma non l'analisi. Per questo non si ha nulla da dire, allora farsi tatuare una storia o uno slogan sul braccio o sul petto sia l'unica dinamica per comunicare.
Ed anche la crescita delle vendite dei videogiochi ne è un fattore distintivo.
Esatto, ma per quello è necessario un altro tipo di valutazione. La società della mia generazione si sfidava su cose di una certa rilevanza: un voto a scuola, l'esame di maturità, la carriera professionale. Si è invece voluto abbassare il livello della sfida, declinandola a "gioco", a "rischio". Se la nostra era una sfida sociale per raggiungere un obiettivo reale, adesso la sfida è sempre più individuale e virtuale. Ad esempio, giocare al videopoker non ha effetti limitati solo per l'utente, ma disegna una formazione, un pensiero di un popolo che si sta lentamente staccando dalla realtà. Diventando, tra l'altro, sempre più narcisista.
Pare la descrizione di una società appagata.
Più che appagata, è stanca di quello che ha già fatto e compiuto, e si porta dietro soltanto indifferenza e apatia verso ciò che gli può apparire serio o impegnativo. Perché continuare a lavorare e a riflettere su cose di una certo spessore: è più facile rilassarsi, perdere il controllo, giocare a carte al casinò. Perché sono cose che non richiedono alcun impegno personale. Da qui, il titolo della nostra ricerca: stiamo degenerando verso una società impersonale. Ciò che manca è l'uomo.
Questa tendenza è solo italiana?
No, ma è comune in tutte le società occidentali, con particolare rilievo per quelle settentrionali europee, dove il livello di coesione sociale è più basso che in Italia e il cinismo è ben radicato nel background collettivo. In Italia è un po' diverso: da noi lo "sbrago" individuale è più frequente anche quando si è "in compagnia".