Gli interventi per il “cambio di sesso” sono pericolosi
Il Journal of Sexual Medicine ha pubblicato due ricerche sulla popolazione che si è sottoposta ad operazioni chirurgiche per il «cambiamento» di sesso. Le complicanze dovute agli interventi sono molte.
Una regola non scritta sembra dominare i grandi media rispetto al tema del transgenderismo: bisogna parlarne bene. Sempre, senza eccezioni. Tutti i riscontri, ancorché di sicura provenienza scientifica, che invece sul «cambio di sesso» raccontano un’altra storia, mettendo in luce criticità anche pesanti sulle condizioni di salute di chi ad esso si sottopone vanno omessi e trascurati, se non addirittura insabbiati.
Nulla – tanto più con la legge Zan ancora da approvare -, deve insomma trapelare oscurando il dogma arcobaleno secondo cui ciascuno, a prescindere dalla propria identità biologica, deve esser libero di diventare «ciò che si sente di essere». Uno stratagemma mediatico che, in effetti, sta funzionando.
Tuttavia, per quanto silenziati, gli studi che sollevano ombre pesanti sul «cambio di sesso» continuano ad essere pubblicati e mettono in luce criticità allarmanti. In particolare, nelle ultime settimane sono usciti almeno due lavori che evidenziano come per chi è nato femmina “diventare uomo” (cosa che non potrà mai avvenire veramente) sia un pessimo affare. Il primo è uno studio uscito sul Journal of Sexual Medicine che ha, appunto, considerato 1.212 pazienti adulti «transmasculine»; di questi, 129 - quindi poco più del 10% - hanno scelto di sottoporsi alla falloplastica, intervento certo impegnativo e complesso nell’ambito della chirurgia ricostruttiva genitale, ma inevitabile per la riassegnazione di genere soggetti che desiderino appropriarsi fino in fondo della loro «nuova identità».
Ebbene, a seguito di tale intervento gli esiti non sono stati esattamente confortanti. Infatti, quei 129 pazienti hanno riportato 281 complicazioni – in media, più due per paziente – richiedendo 142 «revisioni». Più precisamente, la fistola uretro-cutanea ha interessato il 40% dei casi, la stenosi uretrale il 32% e in un caso su cinque si è osservato anche un peggioramento della salute mentale. «Questi esiti», hanno concluso gli autori di questa ricerca, «confermano le segnalazioni aneddotiche secondo cui i tassi di complicanze a seguito della ricostruzione genitale affermativa di genere sono più alti di quelli comunemente riportati nella letteratura chirurgica».
Anche James Cantor, psicologo clinico e sessuologo che segue con attenzione gli sviluppi della letteratura su questi temi - e che, beninteso, non è contrario a priori alla riassegnazione sessuale - è rimasto molto colpito dalle conclusioni dello studio: «Sospettavo che le complicanze di questi interventi fossero sottovalutate, ma non immaginavo fossero tali». Attenzione, perché non è finita.
Sempre sul Journal of Sexual Medicine è in questi giorni è uscito un altro lavoro realizzato su un insieme di casi ancora più esteso – 309 soggetti transgender – che ha messo in luce come tra gli uomini trans, che costituivano circa metà del campione, si sia registrato un significativo aumento del rischio cardiovascolare dovuto ad una alterazione del metabolismo lipidico indotto dalla cosiddetta terapia ormonale affermativa; tale aumento non si è invece verificato, a quanto pare, nelle donne trans.
Ora, perché questi due lavori sono entrambi interessanti? Essenzialmente per una ragione: perché pongono in evidenza rischi per la salute per chi si sottopone al cosiddetto “cambio di sesso” e perché tali rischi – essendo direttamente correlati a procedimenti chirurgici e a trattamenti ormonali – non hanno nulla a che vedere con la vera o presunta transfobia che aleggerebbe nella società. Infatti, uno dei grandi miti rilanciati dal movimento arcobaleno in questi anni è quello secondo cui tutte le criticità legate alla condizione transessuale sarebbero dovute a discriminazioni e pregiudizi da combattere, preferibilmente, brandendo il codice penale. Tuttavia, le recenti pubblicazioni scientifiche di cui si è poc’anzi data notizia, evidentemente, raccontano un’altra storia: e ce ne sono diverse altre, beninteso, che vanno in questa direzione.
Tutto questo alimenta quindi almeno due dubbi: chi – specie le nate femmine – oggi si sottopone a trattamenti di riassegnazione del genere, in Italia e non solo, viene compiutamente informato di questi rischi che non i cattolici ma l’evidenza medica mette in luce? E soprattutto: se malauguratamente dovesse essere approvata la citata legge Zan, si potranno ancora diffondere i contenuti di questi studi scientifici o si verrà iscritti nel registro degli indagati per transfobia? Non sono, in un caso né nell’altro, questioni da poco.