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A TRE ANNI DI DISTANZA

Gli Accordi di Abramo non sono falliti, nonostante il conflitto mediorientale

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Non hanno portato la pace in Medio Oriente, non si sono estesi ad altri Paesi arabi, non hanno isolato l'Iran. Ma allora gli Accordi di Abramo, siglati nel 2020 a seguito della mediazione di Trump, sono falliti? No, perché hanno innescato dinamiche che possono cambiare tutta la regione.

Esteri 17_08_2023
L'annuncio degli Accordi di Abramo

Gli Accordi di Abramo hanno compiuto tre anni in questo ferragosto del 2023. Sembra già un’altra era quella in cui l’allora presidente degli Usa, Donald Trump, fece dialogare lo sceicco Mohammed bin Zayed Al Nayan degli Emirati Arabi Uniti, con Benjamin Netanyahu, premier israeliano. Dopo la normalizzazione delle relazioni diplomatiche fra Israele ed Emirati, seguì anche quella di Israele e Bahrein. Poi un accordo analogo con il Marocco e infine venne coinvolto persino il Sudan, ex Paese cardine della Lega Araba, la cui dichiarazione di Khartoum prometteva guerra senza compromessi con lo Stato Ebraico. Tre anni dopo, cosa hanno lasciato quegli accordi?

Ad una prima analisi, si direbbero falliti, sotto molti punti di vista. Il Sudan è ormai solo formalmente parte dell’accordo, considerando che ora è lacerato al suo interno dalla guerra civile. Contrariamente alle previsioni, agli accordi non si sono più aggiunti altri Paesi arabi della regione. Infine, ma non da ultimo, la pace nel Medio Oriente non è arrivata. Anzi, da un anno e mezzo si nota una recrudescenza della violenza terroristica contro Israele e quindi anche un aumento delle operazioni militari israeliane nei Territori. La pace fra Israele e i Paesi più ricchi della regione, dunque, non ha influenzato l’eterno “processo di pace”, come si sperava nel 2020.

Sono varie le cause che hanno fatto sì che gli Accordi di Abramo non producessero i risultati sperati tre anni fa. In primo luogo, Trump aveva giocato un ruolo da protagonista. Era il suo disegno geopolitico quello di trovare un’intesa fra Israele e i più ricchi e stabili Paesi del Golfo, su basi pragmatiche, invece che concentrarsi sull’infinita questione dei Territori, su cui comunque la controparte palestinese non è disposta a scendere a compromessi. La nuova amministrazione Biden non ha le stesse idee. È tornata a concentrarsi sul Medio Oriente, nel tentativo di riprendere il dialogo con l’Autorità Palestinese, è stata subito durissima con l’Arabia Saudita, per motivi umanitari (la guerra nello Yemen e l’omicidio del giornalista Khashoggi) e soprattutto ha sdoganato il regime dell’Iran, rilanciando il negoziato sul suo programma nucleare.

Le mosse mediorientali dell’amministrazione Biden hanno scoraggiato l’Arabia Saudita, sponsor degli Accordi anche se non firmataria, spingendola addirittura a cercare più contatti con la Cina. Al tempo stesso hanno rafforzato l’Iran, che è tornato ad essere il principale catalizzatore della causa anti-israeliana. Tuttavia, il raffreddamento fra l’amministrazione Biden e il regime iraniano potrebbe portare ad una nuova inversione di rotta. Fra le proteste stroncate con la forza al suo interno e il legame ormai solido fra Teheran e Mosca (con il primo che fornisce alla seconda i droni “suicidi” da lanciare contro bersagli ucraini) hanno creato le basi per una nuova tensione fra Usa e Iran. Ed è questo il motore principale che spinge i Paesi arabi del Golfo ad aggregarsi e a cercare addirittura alleanze con Israele.

Nel frattempo, gli effetti prodotti da tre anni di Accordi non sono da sottovalutare. Simbolica e importante è stata l’apertura del centro multi-religioso di Abu Dhabi, annunciato già in occasione della visita di Papa Francesco. Ospita nello stesso edificio una moschea, una sinagoga e una chiesa cattolica. E questo in un Paese dove la legge coranica è tuttora molto rigida. Sono aumentate anche le opportunità di visita dei Paesi del Golfo da parte degli israeliani e viceversa. I testi scolastici iniziano ad essere riformati, eliminando contenuti che possano alimentare antisemitismo e radicalismo islamico. Quello a cui stiamo assistendo è l’inizio di un lento processo di integrazione, non possiamo assistere a cambiamenti eclatanti nell’immediato.

Secondo il professor Ed Husain, della Georgetown University, sono tre le maggiori motivazioni degli Accordi di Abramo. La prima riguarda la sicurezza “dovrebbe essere implementato un sistema di sicurezza collettiva fra Paesi arabi, Israele e Usa, per proteggere i comuni cittadini dall’estremismo islamico”. E questo soprattutto attraverso “la promozione della coesistenza religiosa e con l’integrazione degli ebrei nella regione”.  La seconda spinta è economica: “un’ondata di prosperità può scaturire dalla cooperazione economica regionale. Israele è la patria di una fiorente Silicon Valley (…) una nuova generazione di arabi vuole gustare i frutti della prosperità israeliana”. Il terzo è un cambiamento degli equilibri di potere nella regione: “Per gran parte del secolo scorso, il Cairo, Baghdad e Damasco erano le capitali della rivoluzione nazionalista e socialista. Ognuna di esse ha seguito politiche economiche di stampo sovietico ed è fallita, lasciando un vuoto riempito dall’estremismo religioso. Le monarchie di Abu Dhabi e Riad stabiliscono ora l'attuale ordine regionale e gli conferiscono un carattere competitivo basato sul mercato”.