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Giovani fragili e "sfaticati": un ritratto impietoso

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Un report di Tinder inquadra i giovani della generazione Z: non scendono a patti, ma solo perché non vogliono fare passi indietro. Emerge un quadro di una gioventù fragile e che non ha voglia di fare fatica. Questi giovani vogliono diventare virili o stazionare nell’insicurezza?  

Educazione 06_06_2023

Interessante il ritratto sociologico sui 18-25enni presentato da Tinder, il portale di incontri on line più famoso al mondo (l’app è stata scaricata 530 milioni di volte). Tinder il 22 maggio scorso ha presentato A Renaissance in Dating, Driven by Authenticity- Un rinascimento negli appuntamenti, ispirato dall’autenticità, secondo report della serie The Future of Dating – Il futuro dell’appuntamento. I dati del report derivano da 4 distinti sondaggi effettuati tra gennaio e aprile di quest’anno su una popolazione totale di 12mila giovani che vivono negli Stati Uniti, nel Regno Unito, in Australia e in Canada. 

Secondo l’interpretazione dei responsabili di Tinder questo report mette in evidenza tre priorità per i giovani: “inclusività, tecnologia e il tema generale dell'autenticità”. Sull’inclusività possiamo leggere che “su Tinder, i membri LGBTQIA+ sono ora il gruppo in più rapida crescita con le persone che si identificano come non binarie che sono aumentate del 104% nell'ultimo anno”. La crescita a 3 cifre è causata da due fattori: piccoli numeri che crescono danno percentuali elevate e inoltre si innesca il meccanismo di coping disadattivo o del “contagio sociale”. Se tutti parlano di non binarismo, ovviamente aumenteranno le persone che crederanno di non essere non binarie. Se tutti dicono che gli alieni sono tra noi, aumenteranno le persone che vedranno nel proprio vicino o collega un abitante di Marte. 

In merito all’autenticità, il report ci informa che i giovani non vogliono scendere a patti con se stessi per nulla al mondo. Insomma non sono facili al compromesso. Ma, domandiamo noi, si tratta di autenticità o di comodità e quindi di egoismo? Propendiamo per la seconda ipotesi dato che, per tornare ai dati dei sondaggi Tinder, “l'80% dei giovani tra i 18 ei 25 anni concorda sul fatto che la cura di sé è la massima priorità quando si frequentano”. L’Io al centro, mica il Tu. Quindi non si tratta di fedeltà ai propri valori, di rigore morale, ma solo del rifiuto di fare un passo indietro, di ingoiare rospi, di spaccarsi la schiena, questo sì, per essere autenticamente se stessi. La mancanza di flessibilità, di adattabilità, di sopportazione della fatica è proprio delle persone fragili. 

A questo proposito citiamo un altro sondaggio, questa volta made in Italy. Il collettivo “Manzoni antagonista” dell’omonimo liceo milanese, qualche settimana fa, ha promosso un sondaggio tra gli studenti. Il sito Tecnica della scuola sintetizza così i risultati: “sette studenti su dieci soffrono spesso di crisi di pianto o crollo emotivo dovuti alla scuola. Addirittura il 16% dei partecipanti denuncia di averli sempre. Uno studente su due, inoltre, non sente valorizzato il suo impegno da parte dei docenti e sente influenzata la propria salute mentale proprio dalla scuola”. La domanda è: questa generazione vuole diventare forte o rimanere fragile? Questi giovani vogliono diventare virili o stazionare nell’insicurezza?  

Chi è fragile fisicamente va in palestra. Lì suda e fatica. Parimenti se un ragazzo vuole diventare un uomo e una ragazza una donna dovrà andare alla palestra della vita e faticare, impegnarsi, sudare, cadere e risollevarsi, provare e riprovare, piangere, stringere i denti e affinare le sinapsi sulla lama tagliente degli insuccessi. Niente sconti, non perché qualcuno è dispotico, ma perché questo mondo, segnato dal peccato originale, è diventato una giungla. E sarà così fino alla fine dei tempi. Rassegnatevi, cari ragazzi della generazione Z, non chiedete che qualcuno fatichi a posto vostro perchè così facendo voi continuerete a precipitare nella vostra fragilità, nelle vostre ansie. Vivere è uno sporco lavoro che non può essere delegato. Se lo fate, non vivrete. Morirete in voi stessi e i dati sul dilagare dei disturbi depressivi giovanili sono lì a testimoniarlo. Un consiglio: marinate la scuola dell’autocommiserazione. E dunque quanto più i vostri docenti e genitori saranno morbidi con voi, tanto più la vita vi apparirà dura. 

Il gruppo studentesco di cui sopra così commenta i risultati del sondaggio: “Fondare la scuola su concetti come merito e competitività, alimentando un continuo stato di pressione, trasforma lo studio da accrescimento personale a un’interminabile prestazione”. Perdonateci, ma noi siamo rimasti all’idea che il più bravo vada premiato e il meno bravo vada sì incoraggiato, ma di certo non premiato come il primo per un malinteso senso di uguaglianza.  

“Per molti genitori e docenti il benessere psicologico non è qualcosa di cui preoccuparsi e talvolta sembrano voler mettere in difficoltà gli studenti per ‘temprarli’”, così scrivete. Migliorarsi significa superare i propri limiti e questo comporta sempre sputare sangue. Ben vengano genitori e docenti che chiedono al figlio/allo studente di diventare non il migliore, ma migliore, non facendo a lui sconti. Temprare e temperamento hanno la stessa radice: chi sfugge alle prove non avrà mai un proprio temperamento, ossia una sua personalità ma scolorirà nella liquidità indistinta tipica di questa nostra contemporaneità, così ben rappresentata, tra l’altro, dai risultati dei sondaggi di Tinder.  

Il “Manzoni antagonista” così prosegue: “L’idea del voto è un tormento, la media un chiodo fisso nella mente degli studenti. Assegnare un numero per valutare la performance degli studenti è un concetto arcaico, che non tiene conto dei fattori umani, delle aspirazioni e dei talenti personali di ogni studente. Metodi di valutazione più sereni dovrebbero quindi abbandonare l’analisi numerica delle virgole e dei decimali, della media aritmetica e ponderata”. Inoltre si vorrebbe, oltre a prof più empatici, una scuola dove “lo studente non è costretto a calibrare il proprio impegno in funzione del voto e della media”.  

Fateci capire: il docente dovrebbe emettere un giudizio e non più assegnare un voto tenendo conto di tutte le circostanze, positive e negative, che riguardano lo studente? E così Marco, che crede che negli anni Settanta ci fossero le Brigate Rossonere, famigerati ultras milanisti (e non è una battuta), meriterebbe 10 perché, abbiate cuore, dovete sapere che è figlio di genitori divorziati, è dipendente dagli spinelli, alle medie lo prendevano in giro perché grassottello ed è stato pure lasciato dalla ragazza di recente. No, cari ragazzi, il docente non è il giudice di tribunale che quando condanna un imputato deve tenere conto di tutte le circostanze attenuanti e aggravanti, il docente, quando esamina, è simile al giudice di gara che guarda alla prestazione in sé, non a tutto ciò che ha prodotto quella prestazione, brillante o deludente che sia. Guarda all’effetto, non alla causa. Dunque dichiara vincitore chi ha tagliato per primo il traguardo e non chi è reduce da un infortunio e ce l’ha messa tutta, ma proprio tutta. Poi, al di fuori dell’esame, il docente si farà in quattro per aiutare Marco, ma non il giorno dell’interrogazione. Questi due momenti vanno tenuti distinti e l’uno non esclude l’altro.  

A tal proposito: in una prestigiosa università italiana i professori sono costretti ad assegnare più tempo alle prove scritte a chi ha dimostrato di avere problemi di comprensione. È come se facessero gareggiare nei 100 metri alle Olimpiadi un ottantenne permettendogli di partire 50 metri avanti agli altri dato che è meno dotato dei restanti atleti. Sempre per rimanere in tema di aneddoti: un preside di una scuola superiore mi ha raccontato che negli ultimissimi anni gli infortuni scolastici sono aumentati in modo vertiginoso tanto che è stato costretto ad avviare un corso per il biennio che insegna agli studenti a cadere. Sì, a  cadere. Altro che generazione Zeta, questa è la generazione Swarovski.