Già meglio Genny 'a Carogna della donna barbuta
Se Tom Neuwirth non si fosse inventato la barba e i lamé e non si fosse ribattezzato Conchita, non se lo sarebbe filato nessuno. Invece ha vinto l'Eurovision Song Contest ed è diventato un caso politico. Ridateci Genny!
Un tempo le donne barbute le esibivano nei circhi ed erano considerate dei poveri scherzi di natura, da guardare con un certo ribrezzo e soprattutto da compiangere. Certo, potevano radersi, ma la povertà impediva loro di farlo, costringendole a mostrare a tutti, dietro compenso, la loro ipertricosi. Se fossero davvero povere donne o maschi travestiti per esigenze di spettacolo, però, forse non si saprà mai. In qualche vecchio numero del Guinness dei Primati magari se ne trova qualcuna di autentica. Mi par di ricordarne una che si era addirittura sposata e aveva avuto dei figli, in posa in un dagherrotipo insieme al marito (magari l’impresario, chissà). Ma foto del genere le mettevano in fila accanto a quelle dei gemelli siamesi e delle loro consorti e, pure qui, figli.
Ora, come sappiamo, il Festival della Canzone Europea ha sdoganato completamente il settore, data la clamorosa (e pure annunciata!) vittoria dell’austriaco Tom Neuwirth, in arte Conchita Wurst, di professione cantante e, come si dice nell’ambiente, «drag queen». Ora, poiché in inglese «drag» è l’uncino, la traduzione letterale sarebbe «regina del rimorchio». Questa persona ha infatti rimorchiato l’intera Ue con la sua voce e, soprattutto, con il suo look eccentrico. Chi ha visto il film Farinelli sa che per secoli sono esistiti cantanti del genere, solo che allora li chiamavano «castrati» per il semplice fatto che una trucida operazione chirurgica li aveva resi eunuchi al solo scopo di farne delle eccezionalità canore. Infatti, cantavano da soprani ma con corde vocali maschili, cosa che li rendeva ricercatissimi per il melodramma e i cori di voci bianche. La Chiesa condannava questa pratica ma col solito successo che riporta la Chiesa in materia morale, tant’è che l’ultimo rappresentante di quell’antico «gender» morì nei primi decenni, addirittura, del secolo scorso.
Ma chi ha vinto il Festival di Copenhagen non è affatto un castrato, perché non ha subito alcuna operazione. Gli ormoni ce li ha tutti, tant’è che porta la barba. È solo en travesti: si veste e si trucca da femmina fatale ma porta la barba. Il bello è che quando si presentava «da maschio» aveva il volto rasato e i capelli corti. Dunque, probabile che il tutto vada rubricato sotto la voce «cosa posso inventare perché mi si noti?». Infatti, ormai non è facilissimo, anche perché la fantasia umana ha i suoi limiti. Restiamo in attesa di vedere che cosa escogiterà il prossimo (o la prossima).
Qui non si discute delle doti vocali di Conchita o della bellezza della canzone, perché, se davvero le une e l’altra erano così straordinarie, sarebbero state subissate di voti lo stesso. Il sospetto è che non sarebbero state subissate lo stesso. Da qui la necessità spasmodica di concentrare in qualche modo il riflettore in mezzo a decine di concorrenti. A conferma, basta scorrere le agenzie e gli articoli di giornale per rendersi conto che gli elogi e le critiche (elogi di, pensate, ministri austriaci, critiche di, pensate, ministri russi) non parlano affatto di canzoni e voci, bensì di «tolleranza», «libertà di espressione», «diritti Lgbt» o, per converso, sarcasmi a tema.
Come volevasi dimostrare, se Tom Neuwirth non si fosse inventato i lamé e la barba nessuno se lo sarebbe filato e al massimo avrebbe guadagnato un onesto posto in classifica. La dimostrazione l’abbiamo, al solito, nel web, vero luogo di libertà d’espressione. Vi fioccano le foto della Sirenetta, di Sissi, di Lady D, tutte con la barba. I buontemponi ci hanno messo pure una tipica pralina austriaca di quelle con la faccia di Mozart e addirittura un pupazzetto Playmobil con le fattezze di Conchita. E c’è anche un Sacro Cuore di Gesù, perché davvero Conchita, con quei capelli lunghi divisi nel mezzo e la barba, sembra un Cristo.
Ha vinto il gender, dunque, non la canzone né la voce, ed è inutile far finta che non sia così. Tant’è che allo stesso vincitore-vincitrice, al momento della premiazione, è scappato un grido dal sen fuggito: «We are unstoppable!», «Siamo inarrestabili!». E indovinate a chi si riferiva. Infatti, l’urlo è subito diventato uno slogan su Twitter (o hashtag «di tendenza», come si usa dire). Prepariamoci, perciò, a ospitate televisive di Tom/Conchita, per chi –come chi scrive- se lo/la fosse perso/a in eurovisione. Tranquilli, c’è sempre il telecomando. Almeno, finché non ce lo sequestreranno per legge quando l’ideologia gender e unstoppable diventerà obbligatoria. Per quanto mi riguarda, preferisco Genny a’ Carogna.