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LIBRO DEL PAPA

«Gesù, re del mondo e della storia»

Nel secondo libro dedicato a Gesù di Nazaret, Benedetto XVI si concentra sulla morte e risurrezione di Cristo, ribadendo la storicità dei Vangeli.

Attualità 10_03_2011
RISURREZIONE

Anche solo un cenno a tutti i molteplici temi di Gesù di Nazaret. Seconda Parte di Joseph Ratzinger - Benedetto XVI (Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2011) è impossibile. Rimandando per un esame più dettagliato a una mia recensione più lunga, che sarà anticipata dal sito del CESNUR, mi limito qui a mettere in luce un aspetto di metodo e tre temi essenziali dell’opera, che costituiscono il cuore del suo messaggio.


Anzitutto, il metodo. Benché il libro sia stato completato prima dell’esortazione apostolica postsinodale Verbum Domini, del 30 settembre 2010, tra questo documento del Magistero e il libro – che del Magistero, come il Papa aveva precisato in occasione del primo volume, a rigore non fa parte – intercorre un rapporto molto stretto. La Verbum Domini è, in larga parte, una spiegazione e un’interpretazione della Costituzione dogmatica sulla divina Rivelazione Dei Verbum del Concilio Ecumenico Vaticano II, e in particolare del suo numero 12, richiamato anche in Gesù di Nazaret. Seconda Parte. L’esortazione, interpretando il documento conciliare, chiarisce che l’esegesi cosiddetta storico-critica può dare contributi validi purché non pretenda di essere l’unica o l’ultima chiave di lettura del testo biblico, che va sempre letto nel contesto della fede della Chiesa la cui individuazione ultima spetta al Magistero. La Verbum Domini afferma che – se si rispettano queste premesse – congiungere un’ermeneutica «scientifica» e una «della fede» è possibile, e corrisponde alle vere intenzioni del Concilio Ecumenico Vaticano II, purtroppo – come scrive il Papa in Gesù di Nazaret. Seconda parte – «quasi per nulla» rispettate nella crisi postconciliare. Nel libro Benedetto XVI ribadisce la stessa prospettiva, ma insieme fa qualcosa di più: mostra e prova come quella che chiama la «congiunzione delle due ermeneutiche» – «scientifica» e «della fede» – sia in concreto possibile.

Tre elementi costituiscono il messaggio fondamentale dell’opera. La prima è la verità storica, fattuale degli eventi narrati dei Vangeli, che un’esegesi razionalista costantemente criticata vorrebbe ridurre a meri simboli. Saranno sufficienti due esempi. Il primo riguarda l’istituzione dell’Eucarestia nell’Ultima Cena. Un’analisi molto dettagliata dei testi che la riguardano offre al Papa l’occasione per una rivendicazione «della reale storicità degli avvenimenti essenziali. Il messaggio neotestamentario non è soltanto un’idea; per esso è determinante proprio l’essere accaduto nella storia reale di questo mondo: la fede biblica non racconta storie come simboli di verità meta-storiche, ma si fonda sulla storia che è accaduta sulla superficie di questa terra». «Se Gesù – scrive Benedetto XVI – non ha dato ai discepoli pane e vino come suo corpo e suo sangue, allora la Celebrazione eucaristica è vuota – una devota finzione, non una realtà che fonda la comunione con Dio e degli uomini tra loro». Utilizzando invece il metodo proposto nel volume della congiunzione delle due ermeneutiche,  possiamo essere certi che l’Ultima Cena è un evento storico realmente accaduto, e «guardare tranquillamente le ipotesi esegetiche che, da parte loro, troppo spesso si presentano con un pathos di certezza che viene confutato già dal fatto che posizioni contrarie vengono proposte continuamente con lo stesso atteggiamento di certezza scientifica».

Del resto, la stessa singolarità dell’Eucarestia è un argomento, spiega il Papa, che consente di considerare le tesi razionaliste secondo cui l’Eucarestia sarebbe un’invenzione dei primi cristiani come semplicemente assurde. Chi mai avrebbe potuto pensare d’inventare una cosa del genere? «L’idea del formarsi dell’Eucaristia nell’ambito della “comunità” è anche dal punto di vista storico assolutamente assurda. Chi avrebbe potuto permettersi di concepire un tale pensiero, di creare una tale realtà?».

Il secondo esempio è la Risurrezione. I giochi di parole di una certa teologia progressista secondo cui Cristo è sì risorto ma solo nella mente o nel cuore dei discepoli, sono criticati come derive che portano fuori del cristianesimo propriamente detto. Per quanto qualitativamente superiore alla storia, la Risurrezione avviene nella storia. Il sepolcro è veramente vuoto. «L’essere cristiani significa essenzialmente la fede nel Risorto». «Se Gesù sia soltanto esistito nel passato o invece esista anche nel presente – ciò dipende dalla risurrezione. Nel “sì” o “no” a questo interrogativo non ci si pronuncia su di un singolo avvenimento accanto ad altri, ma sulla figura di Gesù come tale». Credere che la Risurrezione sia avvenuta è quell’elemento cruciale che consente di rispondere con certezza alla domanda se qualcuno è cristiano o non lo è. «La fede cristiana sta o cade con la verità della testimonianza secondo cui Cristo è risorto dai morti. Se si toglie questo, si può, certo, raccogliere dalla tradizione cristiana ancora una serie di idee degne di nota su Dio e sull’uomo, […] ma la fede cristiana è morta. Gesù in tal caso è una personalità religiosa fallita».


Le obiezioni secondo cui il racconto della Risurrezione è maldestro – se è proprio lui il Risorto, perché i discepoli fanno fatica a riconoscerlo? – si risolvono in realtà in elementi a sostegno dell’autenticità dei resoconti. «La dialettica che fa parte dell’essenza del Risorto è presentata nei racconti – scrive senza mezzi termini il Papa – in modo veramente poco abile, e proprio così emerge la sua veridicità. Se si fosse dovuta inventare la risurrezione, tutta l’insistenza si sarebbe concentrata sulla piena corporeità, sull’immediata riconoscibilità e in più si sarebbe forse ideato un potere particolare come segno distintivo del Risorto. Ma nella contraddittorietà dello sperimentato che caratterizza tutti i testi, nel misterioso insieme di alterità e identità si rispecchia un nuovo modo dell’incontro, che apologeticamente appare piuttosto sconcertante, ma che proprio per questo si rivela anche maggiormente come autentica descrizione dell’esperienza fatta». Se gli evangelisti avessero voluto inventare la storia della Risurrezione, l’avrebbero inventata meglio. Le incertezze sono invece una prova dell’autenticità del racconto.


Il secondo grande tema del libro è il passaggio con Gesù Cristo a un’era qualitativamente nuova nella storia del mondo e della salvezza. Questo passaggio è mostrato dall’abbandono dei sacrifici del tempio, l’elemento che stava al centro della religione degli Ebrei, e dalla fine del tempio stesso, sostituito dalla persona stessa di Gesù Cristo. La cacciata dei mercanti dal tempio sarà imputata a Gesù nel processo, e sarà decisiva per la sua condanna, anche se secondo Benedetto XVI «è giusta la tesi, motivata minuziosamente soprattutto da Vittorio Messori, secondo cui Gesù nella purificazione del tempio agiva in sintonia con la legge impedendo un abuso nei confronti del tempio». Ai lettori de La Bussola Quotidiana farà piacere che, tra tanti professori universitari di teologia, il Papa citi e a approvi proprio un testo di Messori. Gesù, dunque, sarà condannato non per le sue azioni nel tempio – di per sé non illecite – ma per la giustificazione che ne dà, dove rivendica nella sostanza se stesso come nuovo tempio. L’avvento del Signore Gesù comporta la fine del vecchio sistema religioso incentrato sul tempio: «Dio se ne va. Il tempio non è più il luogo dove Egli ha posto il suo nome. Sarà vuoto».


Non è dunque un caso che quando Gesù muore in croce si squarci il velo del tempio. L’episodio conferma che un’epoca della storia si è conclusa: «da una parte, diventa evidente che l’epoca del vecchio tempio e dei suoi sacrifici è finita; al posto dei simboli e dei riti, che rimandavano al futuro, subentra ora la realtà stessa, il Gesù crocifisso che riconcilia tutti noi col Padre. Ma al contempo, lo squarciarsi del velo del tempio significa che ora è aperto l’accesso a Dio. Fino a quel momento il volto di Dio era stato velato. Solo mediante segni e una volta all’anno il sommo sacerdote poteva comparire davanti a Lui. Ora Dio stesso ha tolto il velo, nel Crocifisso si è manifestato come Colui che ama fino alla morte. L’accesso a Dio è libero».


Questo tema è connesso con il terzo nucleo del volume, che sta al cuore della lezione del Papa. Cristo è re, ma la natura della sua regalità – che ha anche una dimensione sociale – non è stata capita dai suoi contemporanei e talora non è compresa neppure da noi. Questo tema emerge in tutti i capitoli del libro, ma ha il suo centro nel processo di Gesù. A proposito di tale processo si dice spesso che i capi d’Israele – da non confondere con l’intero popolo ebraico, che non ha responsabilità collettive nella morte del Signore, un tema che ha molto appassionato i lettori di anticipazioni del volume ma che non occupa nel testo più di tre pagine, né dice cose che non siano già ovvie nel Magistero recente nella Chiesa – si mossero per evitare che Gesù mettesse in discussione l’unità di politica e religione che dava fondamento al loro potere. Ma il Papa ci invita a trattare questa problematica con grande cautela.


La «smania di potere del gruppo dominante» non va confusa con una «preoccupazione» di non separare la politica dal suo fondamento nella religione, che sarebbe in sé «legittima». Bisogna guardarsi, afferma il Papa, dal trarre argomento dal processo di Gesù per sostenere la tesi secondo cui solo un’assoluta separazione tra religione e politica sarebbe conforme al messaggio cristiano e al regno del Signore. Al contrario, la regalità di Gesù Cristo – che pure è tanto diversa da quella del mondo – si estende alla società e, in questo senso, al mondo, anche se talora «mondo» è usato nei Vangeli come sinonimo di una sfera del peccato che, quella sì, rimane estranea al regno. Gesù non veniva a negare un modello in cui ultimamente «Dio domina nel mondo», ma a portare un «modo nuovo» di questo dominio, che i suoi avversari non comprendevano.


In effetti, «Gesù ha creato un concetto assolutamente nuovo di regalità e di regno mettendo Pilato, il rappresentante del classico potere terreno, di fronte ad esso». Siamo qui davvero nel cuore del libro del Papa, e siamo arrivati a una questione che riguarda noi uomini del secolo XXI e non solo Pilato. «Che cosa deve pensare Pilato, che cosa dobbiamo pensare noi di tale concetto di regno e di regalità? È una cosa irreale, una fantasticheria della quale ci si può disinteressare? O forse in qualche modo ci riguarda?». Nel dialogo con il funzionario romano scopriamo un dato decisivo: Gesù «basa il suo concetto di regalità e di regno sulla verità come categoria fondamentale». La domanda di Pilato, «Che cos’è la verità?», non è solo di Pilato. È «la domanda che pone anche la moderna dottrina dello Stato: può la politica assumere la verità come categoria per la sua struttura? O deve lasciare la verità, come dimensione inaccessibile, alla soggettività e invece cercare di riuscire a stabilire la pace e la giustizia con gli strumenti disponibili nell’ambito del potere? […] Ma, dall’altra parte – che cosa succede se la verità non conta nulla? Quale giustizia allora sarà possibile? Non devono forse esserci criteri comuni che garantiscano veramente la giustizia per tutti – criteri sottratti all’arbitrarietà delle opinioni mutevoli ed alle concentrazioni del potere? Non è forse vero che le grandi dittature sono vissute in virtù della menzogna ideologica e che soltanto la verità poté portare la liberazione?».


Qui – ci avverte il Papa – non solo si gioca il significato ultimo della politica, ma addirittura «è in gioco il destino dell’umanità». Delle due l’una: o si accetta come terreno comune per gli uomini un diritto naturale che è «il diritto della verità», oppure «la non-redenzione del mondo consiste, appunto, nella non-decifrabilità della creazione, nella non-riconoscibilità della verità, una situazione che poi conduce inevitabilmente al dominio del pragmatismo, e in questo modo fa sì che il potere dei forti diventi il dio di questo mondo».

Ma ci rendiamo conto qui anche di qualcosa che Benedetto XVI nel suo Magistero ha spesso ricordato. La ragione può riconoscere l’esistenza della verità – e di molte verità – a prescindere dalla fede, e questo fonda il diritto naturale come insieme di verità che s’impongono anche ai non credenti. Ma in pratica, a causa del peccato, riconoscere queste verità prescindendo totalmente da Dio è difficile. «Il mondo è “vero” nella misura in cui rispecchia Dio, il senso della creazione, la Ragione eterna da cui è scaturito. E diventa tanto più vero quanto più si avvicina a Dio. L’uomo diventa vero, diventa se stesso se diventa conforme a Dio. […] In questo senso, la verità è il vero “re” che a tutte le cose dà la loro luce e la loro grandezza».


Verità e regalità sono strettamente connesse. Gesù è egli stesso la verità, e Gesù è il re. Si supera così l’artificiosa contrapposizione creata da alcuni esegeti fra l’annuncio del regno in Galilea e la passione e morte a Gerusalemme. «Proprio nel colloquio di Gesù con Pilato – scrive il Papa – si rende evidente che non esiste alcuna rottura tra l’annuncio di Gesù in Galilea – il regno di Dio – e i suoi discorsi in Gerusalemme. Il centro del messaggio fino alla croce – fino all’iscrizione sulla croce – è il regno di Dio, la nuova regalità che Gesù rappresenta. Il centro di ciò è, però, la verità». Gesù ha regnato dalla croce, che il Papa chiama il suo «trono», e la prova del carattere divino di questo regno è il fatto della Risurrezione. Questo regno – in quanto regno della verità – non ha origine politica ma, come fondamento del diritto naturale, si estende anche sulla politica, sulla società, sul diritto, sull’ordine temporale che dev’essere instaurato cristianamente e reso conforme alla verità e alla giustizia. È la dottrina antica e sempre nuova della regalità sociale di Nostro Signore Gesù Cristo, il re del mondo e della storia.