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LA SENTENZA CEDU

Gesù in jeans è ok, ma non se è in croce

Gesù e Maria in jeans, la Cedu dà ragione a una casa di moda: non è un messaggio lesivo del sentimento religioso. E se ci fosse stato Maometto? Valgono più i diritti della minoranza di offendere che il diritto della maggioranza di non essere offesa. Ma se invece si ostenta un crocifisso...

Libertà religiosa 31_01_2018
Lo spot lituano

Se i credenti devono essere testimoni di fede, per qualcuno Gesù dovrebbe invece essere un testimonial di un paio di jeans. I fatti risalgono al 2012 quando la Sekmadienis Ltd, un’azienda lituana che produce capi di abbigliamento, mette in rete e appende per le strade dei manifesti che ritraggono Maria e Gesù, per dirla con un eufemismo, in modo non convenzionale. Lei si presenta con vestito bianco sbracciato, un filo di perline a mo’ di rosario che le cinge la mano ed un cappello bizzarro pieno di fiori. Lui, molto hippy, è a torso nudo, tatuato e indossa solo un paio di jeans. Entrambi sono dotati di aureola e rispettivamente esclamano: "Gesù, che pantaloni!", "Cara Maria, che vestito!" e "Gesù e Maria, cosa indossate!".

L’Agenzia nazionale per la difesa dei diritti dei consumatori scende in campo e chiede un parere sia all’organo di autogoverno dei pubblicitari che alla Conferenza episcopale lituana. Scatta la multa per la Sekmadienis per aver offeso il sentimento popolare religioso e dunque la morale pubblica. La multa, tra l’altro, era irrisoria: 580 euro. L’azienda, consapevole che la miglior pubblicità non verrà da Gesù e Maria bensì dai giudici, fa ricorso, ma perde. Allora chiama in causa la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu), che davvero è diventata da tempo il refugium peccatorum, nel senso che tutte le istanze più contrarie alla morale naturale lì vengono accolte. Ed infatti la Cedu dà ragione all’azienda di vestiti e condanna la Lituana a rifonderle i danni perché ha violato la sua libertà di espressione.

La sentenza resa pubblica ieri e che diventerà esecutiva entro tre mesi se la Lituana non ricorrerà in appello, afferma quanto segue. Primo: “Le pubblicità non apparivano offensive o profane in modo gratuito, nè incitavano all'odio per motivi religiosi, né attaccavano una religione particolare in modo ingiustificato o offensivo. Di conseguenza, era onere dei tribunali nazionali fornire ragioni rilevanti e sufficienti per sostenere che gli annunci pubblicitari erano contrari alla morale pubblica”. In particolare “le autorità [lituane] non avevano sufficientemente spiegato perché il riferimento ai simboli religiosi nella pubblicità era offensivo o perché proporre uno stile di vita che è “incompatibile con i principi di una persona religiosa’ sarebbe necessariamente incompatibile con la morale pubblica”. Risposta nostra. Per capire se quel messaggio era lesivo del sentimento religioso bastava che i giudici di Strasburgo sostituissero Gesù con Maometto. Di certo avrebbero aggiunto alla multa inferta all’azienda lituana a tre zeri. In secondo luogo se una comunità si riconosce in certi principi religiosi incarnati da Gesù e Maria va da sé che offendere questo sentimento religioso è offendere anche la morale pubblica, ossia la percezione collettiva che alcuni valori, anche di matrice religiosa, sono patrimonio etico di tutti. Solo il laicismo in toga è talmente miope da non vedere uno stretto legame tra morale comune e morale religiosa.

I giudici proseguono nell’illustrare le loro motivazioni affermando che “le autorità non avevano discusso la tesi della società ricorrente la quale sosteneva che i nomi di Gesù e Maria nelle pubblicità erano stati usati non in senso religioso ma come interiezioni emozionali comuni nel lituano parlato, creando così un effetto comico”. A seguire la logica della Cedu potremmo usare nelle pubblicità anche le bestemmie, dato che, come interiezioni emozionali comuni, sono entrate nel linguaggio parlato ormai da inveterata memoria. Poi è falso affermare che i nomi di Gesù e Maria non sono stati usati nella loro accezione religiosa, dato che l’iconografia utilizzata nella pubblicità – l’aureola sopra il capo di entrambi – ha carattere sacro. Inoltre l’effetto comico – già di suo blasfemo dal momento che interessa le persone santissime di Gesù e Maria – è tale proprio perché giocando con la loro sacralità che si ottiene l’effetto comico. Quindi è la stessa Cedu ad ammettere implicitamente la blasfemia. Infine poco importano le intenzioni dei pubblicitari che volevano solo produrre un effetto comico, importa invece come il messaggio lanciato da questi viene accolto dalla massa e la massa vede in Maria e suo Figlio icone sacre da rispettare, non certo da irridere.

Poi i giudici si lamentano che l’unico gruppo religioso consultato è stato quello cattolico romano. Diamo in parte ragione ai giudici: se avessero sentito altri gruppi cristiani di certo anche loro avrebbero bollato la pubblicità come blasfema. Se poi invece altre confessioni religiose avessero applaudito nel vedere Gesù in jeans, ciò non toglie che parte dei credenti lituani si sono sentiti offesi. Oppure cancelliamo le offese se chi offende è in maggioranza?

E a proposito di maggioranza la Cedu inoltre afferma che anche se la maggioranza della popolazione lituana si era sentita giustamente offesa “sarebbe incompatibile con i valori soggiacenti alla Convenzione se l'esercizio dei diritti della Convenzione da parte di un gruppo di minoranza debba essere condizionato dal fatto che la maggioranza lo approvi”. Quindi, ribaltando il principio democratico inteso alla Rousseau, valgono più i diritti della minoranza di offendere che il diritto della maggioranza di non essere offesa. E poi, usando la stessa logica dei giudici, non potremmo affermare che il diritto al rispetto del sentimento religioso di molti non può essere ostaggio del diritto di pochi di insultare? Due pesi e due misure. E sempre in tema di bilanciamento tra pesi diversi, i giudici concludono che l’errore della Lituania è stato quello di non bilanciare il diritto alla tutela del sentimento religioso con quello della libertà di espressione.

Due ultime note. La Cedu per risolvere egregiamente il caso doveva semplicemente applicare o l’art.10 della Convenzione dei diritti dell’uomo dedicato proprio alla libertà di espressione, il quale tutela questo diritto, ma non lo considera assoluto, ossia sciolto da ogni vincolo. Infatti il suo esercizio presente dei limiti: “l’esercizio di queste libertà, poiché comporta doveri e responsabilità, può essere sottoposto alle formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni che sono previste dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, […] alla protezione della salute o della morale, alla protezione della reputazione o dei diritti altrui”. Quindi la libertà di espressione non deve ledere la morale pubblica o gli altrui diritti tra cui la libertà di religione tutelata dall’art. 9 della medesima Convenzione. Oppure poteva applicare l’art. 14 che vieta atti discriminatori, ossia la compressione del godimento dei diritti a seconda, ad esempio, del credo religioso professato. Oppure poteva applicare l’art. 17 che vieta l’abuso di diritto, in questo caso del diritto della libertà di espressione.

Secondo appunto. Nella giurisprudenza della Corte molte volte i giudici sono intervenuti contro i cosiddetti discorsi d’odio, limitando – spesso inopinatamente - la libertà di parola, per motivi legati all’etnia (Pavel Ivanov v. Russia; W.P. and Others v. Poland), alla razza (Glimmerveen and Hagenbeek v. Netherlands), alla verità di alcuni fatti storici (Garaudy v. France; Honsik v. Austria, Marais v. France; M’Bala M’Bala v. France) all’ordine democratico (Communist Party of Germany v. the Federal Republic of Germany, B.H, M.W, H.P and G.K. v. Austria, Nachtmann v. Austria, Schimanek v. Austria) ed anche alla religione, ma solo se la religione da difendere era quella islamica (Norwood v. United Kingdom, con l’eccezione del caso Belkacem v. Belgium perché si trattava di simpatizzanti di terroristi islamici). L’elenco non è esaustivo però è sufficiente per darci l’idea che il principio di uguaglianza, applicato a tutti e in tutti i casi, non vale per i cattolici. Anzi se un intero popolo cattolico prova a far pubblicità, tanto per rimanere in tema, al proprio credo affiggendo nei locali della pubblica amministrazione un crocefisso, viene lui stesso crocifisso dalla Cedu perché violatore della libertà di educazione dei genitori e della libertà di religione di chi non è cristiano (Lautsi v. Italia 2009 poi per fortuna ribaltata nel 2011). Insomma Gesù in jeans va bene, Gesù in croce no.

“Allora Erode, con i suoi soldati, lo insultò e lo schernì, […] il popolo stava a vedere, i capi invece lo schernivano, […] anche i soldati lo schernivano” (Lc 23, 11, 35, 36) ed anche alcuni pubblicitari e la Cedu continuano a schernirlo.