Gerusalemme, urge un negoziato su basi nuove
Gerualemme, dopo l'annuncio di Trump (trasferimento dell'ambasciata) il dialogo sulla sovranità della Città Santa dovrebbe essere impostato su nuove basi, perché il vecchio schema degli Accordi di Oslo non funziona. La Sovranità di Dio sulla città Santa sarà presa in considerazione? Sia ebrei che musulmani la possono condividere
Dinanzi al fatto compiuto, della decisione presa dal presidente statunitense Donald Trump di trasferire la sede dell’ambasciata del suo paese da Tel Aviv a Gerusalemme, la comunità internazionale si chiede cosa fare, visto che le sue preoccupazioni sui pericoli di questo gesto e le raccomandazioni sottese, volte in pratica a non intraprenderlo, sono cadute nel vuoto. E’ da escludere che Trump non abbia riflettuto sulle sollecitazioni ricevute, quasi unanimi, e non abbia dato delle spiegazioni, come qualcuno ha insinuato, quando invece ha sentito di esporle. Esse vanno ora analizzate, indipendentemente da quella secondo cui ha voluto rispettare un formale impegno preso nella vittoriosa campagna elettorale.
La principale di queste ragioni è senz’altro quella del fallimento di tutti i tentativi compiuti per giungere a un accordo di pace, obiettivo che ha visto impegnati in prima persona tutti i suoi predecessori. Essi, per delicatezza diplomatica (che ha mal coperto la comprensione della suscettibilità arabo-palestinese, peraltro condivisibile per alcune ragioni) avevano soprasseduto – si badi ogni sei mesi – all’attuazione del Jerusalem Embassy Act, ovvero della legge che nel 1995 aveva stabilito il trasferimento dell’ambasciata da Tel Aviv alla Città Santa. All’epoca questa legge non aveva provocato le violente reazioni di questi giorni: proteste, minacce, incitamenti alla ribellione, proclamazione della terza Intifada, ricorso alle armi, lancio di missili sul territorio israeliano. Le varie dilazioni al rispetto della legge erano state sempre motivate dalla riposta fiducia nella conclusione degli Accordi di Oslo, esaltati come noto con la ratifica ufficiale il 13 settembre 1993 nei giardini della Casa Bianca e poi con l’attribuzione ai suoi protagonisti del premio Nobel. A Trump non restava che intraprendere una strada nuova per riavviare la trattativa di pace; oppure continuare a cullare un estenuante statu quo, cioè a mantenere le cose come stanno da sempre, pur con le evoluzioni avvenute della prima decade del 2000 nel corso di faticosi negoziati e fissate in intese parziali. Ma fino a quando?
La prima urgenza al momento è di porre fine alla violenza sul terreno. Sarà difficile, certo, perché ogni reazione palestinese, anche spropositata e violenta, viene compresa se non giustificata e perdonata, nei paesi occidentali, sia dalle cancellerie sia dall’opinione pubblica. Tutti ben lontani neanche dal deplorare in tempi recentissimi gli incredibili affronti e le insensate condanne da parte di organismi delle Nazioni Unite a Israele e le supine condivisioni delle menzogne palestinesi secondo cui il Tempio ebraico di Gerusalemme non è mai esistito e la Spianata delle Moschee è soltanto un luogo santo musulmano. La politica dell’Autorità Nazionale Palestinese si è concentrata negli ultimi anni nella ricerca per via diplomatica di quel successo, la nascita dello Stato palestinese con Gerusalemme capitale, che mai potrebbe conseguire attraverso negoziati bilaterali. Con il risultato, evidente, sia della degenerazione del contendere sia dell’accrescimento delle tensioni politiche e delle esasperazioni degli animi.
Il secondo passo dovrebbe consistere nel proporre alle parti la ripresa del negoziato su basi ben diverse del passato. Innanzi tutto con un approccio che si deve fondare assolutamente sulla verità e sull’accettazione – non certo sulle interpretazioni o speculazioni – delle evidenze. La realtà è e dovrebbe essere una, non multipla, non “pirandelliana”. (Che, maturata in una Sicilia dove ha resistito la sedimentazione di una mentalità islamica praticata in più di due secoli di occupazione, ha avuto in Luigi Pirandello un geniale illustratore). Un approccio che inoltre deve aborrire la taquiya, la riserva mentale, ovvero quel ricorso alla dissimulazione consentito dalla religione islamica che ha minato irrimediabilmente tante trattative. Perché alla fine, stringendo sulle proposte in discussione, i palestinesi hanno dovuto rompere senza dare delle spiegazioni plausibili su compromessi considerati ragionevoli.
Se già queste due premesse appaiono ostiche, una terza estranea alla cultura giuridica islamica appare di difficile accoglimento: i palestinesi infatti non conoscono, anzi rifiutano, lo studio del diritto comparato (la Sharia non consente confronti, esegesi o interpretazioni estensive che portino a configurare o che abbiano una validità giuridica), quel diritto che in un negoziato favorisce la comprensione delle ragioni della controparte e la ricerca di formule che contemplino la salvaguardia, anche parziale, di principi o di acquisizioni fondamentali. La cultura giuridica occidentale, alimentata da un libero e ricco pensiero filosofico, ha potuto ad esempio arricchire o limitare il diritto di proprietà salvaguardandolo in varie circostanze o evenienze.
Queste considerazioni portano a riflettere sul diritto di sovranità (prepotentemente tornato di attualità con la decisione del presidente Trump di trasferire a Gerusalemme la sede dell’ambasciata del suo paese) studiato dalla illustre giurista israeliana Ruth Lapidot, presidente del The Jerusalem Institute for Israel Studies e docente di diritto internazionale all’Università ebraica della città. Nel 1999, anno in cui presentò il libro, di cui è coautore Ora Ahimeir, dal titolo Freedom of Religion in Jerusalem, affermò che se si continua a dibattere sulla questione della sovranità non si arriverà mai a una soluzione perché israeliani e palestinesi non possono fare dei compromessi. Ma ci si può mettere d’accordo che la sovranità su Gerusalemme appartiene a Dio, soluzione avvantaggiata dal fatto, precisò, che la sua idea della “sovranità divina” sulla Città Santa alle tre religioni monoteiste era anche dell’allora vivente re Hussein di Giordania (padre dell’attuale sovrano). Un’idea che, ribadì la signora Lapidot, è in conformità con il l’islam e il giudaismo, perché secondo il Corano e la Torah tutto l’universo appartiene a Dio. Quindi non varrebbe nemmeno discuterla, bensì accettarla.
Ma se dovesse persistere l’impossibilità di un accordo, per la signora Lapidot ci sarebbero due altre possibilità per le due parti: accantonare il problema della sovranità per discuterlo tra venti-trent’anni o convenire che “non sono d’accordo sulla sovranità ma d’accordo su altre questioni concernenti la divisione delle competenze” . Una soluzione identica a quella che fu adottata dall’ Argentina e dalla Gran Bretagna dopo la guerra per le isole Malvine o Falkland. Ricordo che l’idea dell’affermazione del principio della “sovranità divina” per Gerusalemme fu pure condivisa e divulgata in alcune conferenze in Spagna dal vescovo cattolico Kamal Hanna Batish, allora ausiliare del Patriarca latino mons. Michel Sabbah.
E’ pur vero che vi sono anche questi “semi e segni di speranza” per la ripresa di un dialogo di pace. Pertanto, pur considerando inaccettabile il rigurgito della violenza, che Trump ha messo nel conto, rimane il suo intento, questo sì pienamente condivisibile, di ripartire su basi nuove perché israeliani e palestinesi giungano ad un accordo durevole. Accordo che dovrà pure rispettare i diritti di ebrei, musulmani e cristiani nell’esercizio della loro libertà religiosa, in special modo a Gerusalemme . E di più, che faccia sentire in essa tutti gli uomini di questa terra come a casa loro, essendovi tutti nati. Parola del Salmo 86.