Gerusalemme, l'odio cova sotto la cenere
Un giro nei quartieri musulmani di Gerusalemme basta a rivelare una malcelata intolleranza nei confronti dei cristiani. E una carica di odio viscerale contro Israele. Sulla Spianata delle Moschee, la tensione si taglia a fette.
Subito dopo la fine della visita di Papa Francesco un piccolo incendio è stato domato nella Basilica della Dormizione. Successivamente un altro incendio è scoppiato nella Basilica della Natività a Betlemme. Mentre quest’ultimo è un incendio accidentale (stando all'indagine svolta finora), il fuoco nella chiesa dedicata alla Dormizione era sicuramente doloso. Non sono ancora stati individuati i colpevoli, anche se i maggiori sospetti ricadono su un gruppo di ebrei ultra-ortodossi che, poco prima, avevano preso a male parole i frati francescani. Al di là di questo grave atto di vandalismo la visita è stata caratterizzata dalla massima sicurezza.
La visita di Papa Francesco in Israele si conclude con una ventata di ottimismo. Il suo invito a pregare per la pace, rivolto ai presidenti di Israele e dell’Autorità Palestinese, l’abbraccio di fronte al Muro Occidentale con , il rabbino Avraham Skorka e l’imam Omar Aboud, sono diventati di simboli della speranza per la pace in Medio Oriente.
Ma quanto è sentito, nella popolazione, questo desiderio di riconciliazione? Lasciamo perdere le autorità e le loro dichiarazioni ufficiali, almeno per un momento. Solo passeggiando per le vie di Gerusalemme, l’ostilità, soprattutto nella popolazione araba musulmana, si avverte a pelle. Non serve sapere l’arabo. Basta cercare di parlare con un tassista, chiedergli di portarti al punto più vicino possibile del Santo Sepolcro (che è in una zona pedonale) e sentirti rispondere che non sa cosa sia. Glielo dici in inglese e alza le spalle “non so, non capisco”. Glielo scrivi e glielo fai leggere: “ho dimenticato gli occhiali”. E inizia a gesticolare freneticamente, a parlare con altri, a far di tutto per urtarti. Si capisce che non ne vuol sapere, meglio lasciar perdere. “Chiuso, è tutto chiuso, c’è il Papa e non si può entrare nella città vecchia”. E non è vero: il Papa è già partito e nella città vecchia si può entrare eccome.
Entriamo in un negozio e un uomo del personale, un altro arabo musulmano, vuole a tutti i costi farci vedere le foto del giornale. Sono gli scontri del giorno prima. “A causa del vostro Papa, hanno picchiato i miei amici”. Secondo lui la polizia israeliana, d’accordo con i cristiani, per “ripulire” la città in vista dell’arrivo di Francesco, ha pestato i musulmani. Senza nemmeno citare i lanci di oggetti contundenti e di bottiglie che hanno provocato quello scontro con le forze dell’ordine.
Inizio della Via Dolorosa: un mendicante cerca di venderci del depliant all’ingresso della prima stazione. Non accettiamo e lui inizia a farsi insistente e aggressivo. Sentendo che siamo italiani, spiccica qualche parola nella nostra lingua: “Ora tutto finito, vostro Papa andato, Vaticano piif!” e ridendo fa un palese gesto che mima un’esplosione. Giusto per farci sentire a nostro agio…
Un giro dei mercatini arabi che coprono interamente la Via Dolorosa può essere molto istruttivo. Le magliette che sono esposte sono meglio di una lezione di geopolitica. Una delle T-shirt più diffuse ha la scritta in inglese: “La mia patria, Palestina” e la mappa della Palestina: tutto il territorio dal Giordano al Mediterraneo, coperto dalla bandiera palestinese. Tutto il territorio: Haifa e Tel Aviv sono incluse e Israele scompare. Dell’idea di “due popoli in due Stati” non si trova traccia. Un’altra, più ironica, riproduce una schermata di Google, con la ricerca “Israele” e la risposta “forse cercavi Palestina”. E’ folklore, d’accordo. Ma anche un modo di fare politica, tollerato oltre ogni limite. Se (poniamo il caso) un movimento separatista filo-francese iniziasse a vendere massicciamente magliette con una mappa in cui la Francia comprende anche tutto il territorio italiano, non scoppierebbe un caso? Immancabili, poi, le magliette con la mano nera su fondo giallo che segna le quattro dita: è quella ufficiale dei Fratelli Musulmani, durante la loro protesta contro la defenestrazione di Mohammed Morsi, in Egitto.
Pur essendo giornate senza scontri, con una Gerusalemme stracolma di turisti e pellegrini da tutto il mondo, la tensione si avverte anche nella spianata delle Moschee. La si raggiunge attraverso una passerella in legno che scavalca il Muro Occidentale ed è stata oggetto, nel corso degli anni, di infinite polemiche. Basta un restauro, un lavoro di manutenzione, una proposta di sostituzione con una struttura più solida per scatenare la paura e la rabbia della comunità musulmana. Negli ultimi anni si è diffusa e consolidata l’idea che gli ebrei vogliano scavare dei tunnel sotto la spianata per farla crollare. Lavori simili non sono mai neppure stati progettati, ma le leggende nere, da queste parti, nascono in continuazione e non muoiono mai. Il numero di poliziotti, sia all’ingresso che all’interno della Spianata, è un chiaro indice di quanto alto sia il rischio di disordini. L’equipaggiamento anti-sommossa, scudi di plastica trasparente ed elmetti, è impilato ordinatamente fuori dalla spianata. Al suo interno, i poliziotti, con divisa d’ordinanza, sembrano molto vigili e pronti a correre a recuperarlo.
I guardiani del Waqf (l’autorità dei custodi del luoghi sacri musulmani) ci vengono incontro, si accertano che le donne siano vestite in modo appropriato, hanno l’ordine di far lasciare all’ingresso simboli cristiani, bibbie e qualunque cosa ricordi religioni non musulmane. Ci ricordano che è vietato pregare, in tutto questo enorme spazio, se non siamo musulmani. Questa era la spianata del Secondo Tempio ebraico (distrutto dai romani nel 70 d.C.), ma un ebreo non può neppure pensare di entrarci per pregare. Secondo la storiografia ufficiale della Palestina, così come della maggior parte dei Paesi arabi, in questo spazio non è neppure mai esistito un Tempio. Ci accoglie la vista di folti gruppi di donne, sparsi per tutta la spianata, fuori dalla grande moschea di Al Aqsa. Sono piccoli gruppi guidati da donne in niqab (velo integrale) con le mani coperte da guanti neri: tengono loro delle lezioni animatissime, con tono più da comizio politico che non da predica. Anche lo sguardo delle allieve è significativo: arrabbiate, energiche, non vogliono farsi fotografare, sembra debbano menar le mani da un momento all’altro. Pare più un comizio di un sindacato autonomo che non un luogo religioso. A intervalli serratissimi le lezioni sono interrotte dal grido di “Allah u Akhbar!” (Dio è grande). Gli uomini rispondono al richiamo, come una eco, rilanciandosi a vicenda. Scoppiano gli “Allah u Akhbar!” per tutta la spianata, voci maschili e voci femminili. E’ qui che scoppiò la II Intifadah, nel 2000: bastò la passeggiata dell’allora leader dell’opposizione Ariel Sharon in questo grande spazio a far da detonatore. E’ sempre qui che potrebbe benissimo scoppiarne una terza insurrezione, se non si disinnesca prima la bomba dell’odio religioso.