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VERTICE DI ISTANBUL

Gerusalemme, l'enigma islamico

Dietro alla reazione rumorosa dei paesi islamici che chiedono il riconoscimento di Gerusalemme est come capitale dello stato palestinese, ci sono in realtà posizioni e strategie diverse, ma soprattutto la consapevolezza che al negoziato non c'è alternativa. 

Editoriali 14_12_2017
Vertice di Istanbul

Ha puntato su un consenso scontato in partenza il presidente turco Erdogan convocando a Istanbul un “vertice” della Conferenza della Cooperazione Islamica (CIP) su Gerusalemme, tornata alla ribalta dell’attualità per la decisione del presidente statunitense Donald Trump di trasferire in essa, capitale d’Israele, la propria ambasciata. Ma dietro alla grande enfasi a cui ha improntato la sua iniziativa e all’altrettanto grande clamore mediatico che l’ha sostenuta, analizzando gli interventi più significativi, del re di Giordania Abdallah II e del premier iraniano Rohani, e le prime reazioni ufficiali in Occidente, e calando infine le conclusioni ufficiali nella complessa realtà geo-politica esistente nella regione, il bilancio conduce ad un ridimensionamento del loro valore.

Gli Stati musulmani sono stati invitati a riconoscere «Gerusalemme Est come capitale dello Stato occupato di Palestina», uno stato che però, come noto, se non inesistente nell’accezione tradizionale del diritto internazionale, è anomalo, ovvero “virtuale”  per il riconoscimento di numerosi paesi e di vari organismi dell’ONU. Erdogan e il “vertice” hanno quindi “giocato” con la storia, perché Israele non ha occupato uno “stato” di Palestina, mai esistito;  occupa invece dei territori tra il mare Mediterraneo e il fiume Giordano negli ultimi secoli appartenuti all’Impero ottomano, adiacenti al proprio stato ebraico proclamato tale, in base a una risoluzione ONU,  il 15 maggio 1948 allo scadere del Mandato britannico. Territori conquistati in tre guerre vittoriose sugli stati arabi vicini (del 1948, 1967 e 1973) in buona parte dei quali,  in seguito agli Accordi di Oslo (1993) tra Israele e l’Organizzazione per la liberazione della Palestina, è stato avviato un processo di pace che ha visto la costituzione dell’Autorità Nazionale Palestinese e il trasferimento ad essa di poteri prevalentemente amministrativi.

A Istanbul, al “vertice” musulmano è stata invocata la decadenza degli Accordi di Oslo; non esplicitata invece la ripresa del negoziato di pace che solo può portare alla nascita dello Stato palestinese, alla definizione dei suoi confini (Erdogan li ha invece fissati sulla linea di armistizio della “Guerra dei sei giorni” del 1967) e ad una soluzione della controversa sovranità su Gerusalemme (essendo stata la città, già nel 1980, proclamata per legge “capitale eterna e indivisibile” di Israele). La dichiarazione conclusiva del “vertice” di Istanbul con l’auspicato riconoscimento islamico di «Gerusalemme Est capitale dello stato occupato di Palestina» è quindi una risposta al riconoscimento di Gerusalemme capitale dello stato di Israele da parte del presidente degli Stati Uniti.

Così il diverbio, il contrasto, le acrimonie tra mondo islamico e Israele restano irriducibili, vieppiù esaltati dalla virulenza verbale del presidente turco e dall’eco mediatica internazionale che il “vertice” ha avuto (appagando l’autoesaltazione di folle esagitate). Ma la reazione del presidente palestinese Abu Mazen non é andata oltre la dichiarazione che «gli Stati Uniti non possono più essere mediatori» di un negoziato, quando egli ben sa che non sarà così e che il ruolo di mediazione sarà assolto, come in passato, anche da Russia, Unione Europea e ONU, ovvero dal “Quartetto internazionale”. 

Comunque il presidente Trump ha fatto sapere che «resta impegnato per la pace, come sempre» e «continuerà a lavorare duro per elaborare il suo piano di cui beneficeranno sia il popolo israeliano sia quello palestinese»; piano che sarà «svelato quando pronto e al momento giusto». Con un monito: «La retorica ha impedito la pace per anni».

Importante la prospettiva introdotta nel dibattito da Re Abdallah II di Giordania che, riprendendo la convinzione di suo padre Hussein, ha voluto sottolineare come Gerusalemme sia considerata una città santa “anche” nell’islam. «E’ nei cuori di tutti i musulmani, come lo è in quelli di tutti i cristiani. Gerusalemme è eterna», ha detto. Per un riguardo alle posizioni degli altri paesi islamici, non ha voluto esplicitare quell’«anche», citando Israele, con cui ha relazioni di pace. Ma queste sue dichiarazioni potrebbero incoraggiare gli sforzi di coloro che cercano una soluzione di pace, un compromesso per la Città Santa alle tre religioni abramitiche in nome della “sovranità divina” su di essa.

Significativa la dichiarazione dell’iraniano Rohani, figura di primaria evidenza al “vertice”. E’ noto il ruolo avuto dal suo paese, il più importante dell’islam sciita, nella sconfitta dell’Isis in Siria nella guerra combattuta insieme con la Russia a sostegno del regime di Damasco. Ed è pure noto il confronto con l’Arabia Saudita, il più importante dell’islam sunnita, apertamente sostenuto dal presidente degli Stati Uniti. Dinanzi ad un mondo islamico diviso, Rohani ha affermato che «i problemi tra i (suoi) paesi si possono risolvere attraverso il dialogo». L’importante è «un islam unito contro il pericolo del regime sionista» (non ha mai citato Israele), l’Iran «pronto a cooperare con tutti senza alcuna riserva o precondizione per la difesa di Gerusalemme». Delle avances destinate però, per la situazione geo-politica dell’intera regione, a non poter avere accoglimento o seguito.

Resta invece da chiedersi cosa intende perseguire il presidente turco Erdogan se non l’ambizioso ruolo di restauratore della potenza ottomana dei primi “secoli d’oro”, quindi della sua sfera di influenza sul Vicino e Medio Oriente. Sta destreggiandosi nelle relazioni con le nazioni più importanti della regione e con spinto realismo ha ristabilito e incrementato quelle con la Russia. Ha di converso causato il deterioramento, soprattutto a causa delle flagranti violazioni dei diritti umani, delle relazioni con i paesi occidentali, pur alleati nell’Alleanza Atlantica. Per l’acquisto del sistema russo antiaereo S-400 ha alzato i toni della polemica arrivando a dire che alla NATO «sono diventati tutti matti». Evitando tuttavia di rompere o di compromettere seriamente i rapporti con l’Occidente. Consapevole che «nessuno trarrebbe beneficio da una escalation della violenza» e che «l’unica strada per evitarla è quella del negoziato»: così ieri il ministro degli Esteri italiano Alfano in un appello alla moderazione rivolto «a tutti gli attori della regione».