Gentiloni sulla via della seta
La Cina si impegna a riaprire la Via della Seta, lo storico asse di comunicazione trans-continentale terrestre e mediterraneo tra Asia ed Europa. Iniziativa strategica che si colloca al di fuori del sistema fissato da secoli dai Paesi nordatlantici. Ma il Governo deve gestire con gli Usa un nuovo equilibrio e soprattutto essere deciso nella scelta dei porti di approdo da utilizzare.
Guardando alla scena delle relazioni internazionali nel loro insieme si ha l’impressione che, dopo anni di stasi, stia iniziando una fase di svolte che potrebbero rivelarsi cruciali. Sono segnali spesso assai diversi, ma sono tutti quanti sintomo del medesimo fenomeno: l’inizio della fine di uno status quo che durava ormai da lungo e talvolta anche da lunghissimo tempo.
All’interno dell’Occidente si affermano leader politici “anomali” che in un modo o nell’altro sono giunti alla ribalta a prescindere dall’ordine costituito dei partiti tradizionali, e che proprio perciò hanno raccolto vasto consenso tra gli elettori. Alla scala planetaria la Cina si impegna a riaprire la Via della Seta, lo storico asse di comunicazione trans-continentale terrestre e mediterraneo tra Asia ed Europa: prende cioè un’iniziativa strategica che si colloca al di fuori del sistema fissato da secoli dai Paesi nordatlantici, e che pone le premesse per un radicale riequilibrio delle relazioni internazionali.
Inadatta a rispondere sia alle sfide che le vengono dall’interno che a quelle che le vengono dall’esterno, anche per questo l’Unione Europea boccheggia.
In tale prospettiva acquista notevolissimo interesse l’annuale vertice del G7, in programma in Sicilia, a Taormina, venerdì e sabato 26/27 maggio prossimi. Il presidente americano Donald Trump vi giungerà al termine di un viaggio che lo avrà portato prima nel Vicino e Medio Oriente, in Arabia Saudita, Israele e Palestina; quindi a Roma, dove incontrerà il Papa; a Bruxelles per il vertice della Nato e infine a Taormina per quello del G7. Qui il premier italiano avrà un ruolo maggiore del solito non solo in quanto padrone di casa ma anche perché era l’unico capo di governo del G 7 presente a Pechino al “Forum for Belt and Road Cooperation” dove Pechino ha presentato il progetto per la riapertura dello storico itinerario euro-asiatico: un investimento complessivo di circa mille miliardi di dollari per l’avvio del quale ha già stanziato 124 miliardi di dollari.
Per parte nostra non da oggi siamo convinti dell’importanza epocale della riapertura della Via della Seta ai fini di un positivo riequilibrio delle relazioni internazionali. Già ne scrivevamo ne “La nuova Via della Seta”, un libro edito da Jaca Book nel 1982, trentacinque anni fa, auspicando che fosse l’Europa, in particolare quella mediterranea e quella centrale, a prenderne l’iniziativa.
Non è accaduto, e adesso l’operazione viene avviata dalla Cina, con prevedibile vantaggio anche per noi, ma con lo svantaggio strategico che viene dal fatto di non esserne stati gli iniziatori. Nel mondo in cui viviamo si può ritenere che vi sia spazio tanto per la nuova Via della Seta quanto per gli itinerari navali transoceanici su cui a partire dalla fine del secolo XVI le potenze nordatlantiche spostarono il grosso dell’interscambio euroasiatico; itinerari oggi percorsi da gigantesche navi porta-container. Tuttavia è troppo pretendere che gli Stati Uniti e l’Europa atlantica siano entusiasti di un tale sviluppo.
A Pechino, oltre a Gentiloni, gli unici altri capi di Stato europei presenti erano i primi ministri di Spagna, Grecia e Ungheria. La Germania, benché abbia già in funzione un regolare collegamento ferroviario merci con la Cina, aveva inviato solo il ministro dell’Economia, e così pure la Gran Bretagna. La Francia veniva rappresentata dall’ex premier Raffarin. La delegazione degli Usa, infine, non era nemmeno di livello ministeriale: la guidava semplicemente il consigliere per l’economia del presidente Trump Matthew Pottinger.
Essendo di fatto la più importante presenza europea e occidentale all’incontro, Gentiloni è stato a Pechino il primo interlocutore del leader cinese Xi Jinping e ha preso la parola subito dopo di lui. Ci sono però due problemi di fondo nell’affronto dei quali si misurerà la capacità del nostro governo di cogliere o di sprecare l’occasione che si presenta. Si tratta da un lato di non dare motivo agli Stati Uniti e ai Paesi europei nordatlantici per schierarsi a testa bassa contro il nuovo asse di comunicazione. E si tratta dall’altro di porsi con la Cina come un interlocutore adeguato.
Mentre Pechino ci chiede di scegliere uno, al massimo due nostri porti da sviluppare come capolinea della variante mediterranea della nuova Via della Seta, il nostro governo resta nel vago, preoccupato di non prendere decisioni che, in un periodo prossimo alle elezioni, potrebbero fargli perdere voti. Il ministro delle Infrastrutture, Graziano Del Rio, aveva perciò preceduto Gentiloni a Pechino portando un gran numero di proposte. Il governo sperava così di scaricare in certo modo l’onere della scelta sui cinesi, i quali però ovviamente hanno risposto ,“A questo dovete pensare voi”. Dalle grandi scelte geo-politiche siamo oggi dunque arrivati al piccolo cabotaggio elettorale. E per il momento qui restiamo, attendendo Taormina.