Genitori, ma senza relazioni: ecco a voi il co-parenting
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Nel fenomeno emergente del co-parenting si tiene il bambino e si butta via la relazione con l’altro genitore che diviene solo educatore e co-finanziatore del progetto educativo. E non è un caso che la società che lo promuova, con 124mila iscritti, sia composta per la maggior parte da gay.
Una chiave di lettura della modernità è la reificazione, ossia la cosificazione delle persone e quindi anche delle relazioni tra di esse. La cosa è spesso oggetto di consumo. Quando è così interpretata e vissuta diviene prodotto. Il bambino, seppur nato in modo naturale, non di rado è prodotto di consumo, perché soddisfa il nostro ego. Quello avuto in provetta o tramite noleggio delle viscere di una donna è anch’esso prodotto. Anche quello abortito è prodotto, buttato via perché fallato o perché assolutamente non gradito (se donano un fucile a te, che sei contro le armi, te ne disfi). La nostra stessa esistenza viene intesa come prodotto che se deperisce si può smaltire tramite eutanasia. Il matrimonio è anch’esso un prodotto, un prodotto societario dove investi le tue quote e, se dopo un certo periodo non rendono, ecco che le puoi ritirare grazie al divorzio.
Le relazioni affettive altresì sono un prodotto, perché l’altro non è termine personale di donazione, bensì oggetto di consumo: le relazioni infatti perdurano finchè funzionano – termine proprio dell’ingegneria meccanica – ossia se sono soddisfacenti, se producono utile. L’altro è in funzione di me, del mio tornaconto, cioè del mio benessere. Il “Ti voglio bene” viene inteso sempre più come “quanto è bello essere voluti bene da te”.
In questa logica dove gli altri e le relazioni sono prodotti da consumare, si inserisce quella tendenza – non ancora fenomeno sociale – del co-parenting. Si tratta di questo. Vi sono ormai da qualche anno piattaforme on line che fanno incontrare domanda e offerta – stiamo sempre parlando di prodotti – in merito al desiderio di avere un bambino, sganciato però dal desiderio di avere una relazione affettiva. Si scompone il pacchetto della relazione: io e te mettiamo al mondo un bambino alla vecchia maniera o con la provetta e poi entrambi lo cresciamo, come due genitori veri e propri, ma senza volerci bene. Patti chiari e amicizia lunga, dato che di amicizia si tratta e non di amore. Dunque nel rispetto della liquidità dei rapporti e del desiderio di customizzare gli stessi, viene ritagliata su misura il concetto di “famiglia”, scindendo la genitorialità dal vincolo coniugale e addirittura da quello affettivo. Genitori sì, coniugi no, compagni nemmeno, forse amici, sicuramente soci.
Nella co-parenting, dunque, si tiene il bambino e si butta via la relazione con l’altro genitore che diviene solo educatore – ma è un pio desiderio perché il bambino cresce sano solo in un rapporto di vero amore tra papà e mamma – e co-finanziatore del progetto educativo. Il co-genitore spesso non vive nemmeno nella stessa casa dell’altro co-genitore. D’altronde il lavoro di padre e madre può essere svolto non sempre in presenza.
Il prodromo della co-parenting è nel divorzio e nella convivenza. Il divorzio, in relazione ai figli, è nella sostanza un vero e proprio co-parenting ante litteram. Niente più rapporti con l’ex coniuge, eccetto quelli necessari per il sostentamento e l’educazione dei figli. Forse l’unica differenza con il co-parenting sta nel fatto che in quest’ultimo caso i rapporti tra i genitori potrebbero essere meno burrascosi.
In merito alla convivenza, già in essa abbiamo la tendenza a liberarci dai vincoli dell’indissolubilità e dell’esclusività del rapporto matrimoniale in relazione al partner. La convivenza indica un trend: le relazioni diventano sempre più precarie, meno obbliganti e si sceglie cosa prendere e cosa lasciare. Più in particolare la co-genitorialità si situa a metà strada tra la convivenza – fenomeno che l’anticipa – e la genitorialità single – che si posiziona successivamente. In quest’ultima si cerca un donatore o una donatrice di gameti, ma poi si vuole crescere il bebè da soli. Nella co-genitorialità si può scegliere di concepire naturalmente o artificialmente, ma il donatore o la donatrice di gameti non scompare, bensì rimane in qualità di genitore, a volte riconosciuto legalmente a volte no. È una genitorialità ergonomica, aderente e comoda alle voglie degli adulti. La contiguità tra il co-parenting e la scelta di essere padre o madre single trova conferma nel sito Coparents.com che conta ben 124mila membri (compresi i non attivi, quelli che hanno lasciato perdere e quelli che hanno trovato ciò che cercavano) e che fa incontrare le persone che vogliono condividere il progetto di cogenitorialità e quelle che invece cercano “solo” un donatore di sperma.
Interessante poi scoprire che ben un terzo delle coppie che hanno voluto fondare questa società a responsabilità molto limitata, sono coppie gay. Dato che la percentuale di persone omosessuali oscilla tra l’1 e il 4% della popolazione, la quota di co-parenting arcobaleno è in termini relativi assai significativa. Segno eloquente che è la stessa omogenitorialità ad essere caratterizzata da un maggiore desiderio, rispetto alle coppie eterosessuali, di soddisfare le voglie dell’adulto e non le esigenze del minore.
Il co-parenting conferma l’assioma iniziale: il bimbo viene inteso come prodotto da consumare per soddisfare i propri interessi, non è più frutto dell’amore con un’altra persona. La relazione con quest’ultima è volta solo a soddisfare tale interesse, è dunque innervata da puro utilitarismo. E dunque, se ti interessa solo il figlio, ma non la relazione con il genitore, perché non inventarsi questa innovativa formula? Il genitore diventa quindi un mero socio in affari.
E così abbiamo relazioni prive di bambini (contraccezione e aborto), bambini privi di genitori (utero in affitto), genitori privi di relazioni (divorzio e co-parenting). A voi la scelta.