Gay in seminario, un testo fumoso alimenta il coro dei media
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Nonostante i titoloni, il nuovo documento CEI sulla formazione dei presbiteri non apre (per ora) le porte dei seminari ai candidati omosessuali, ma con un fiume di parole presta il fianco all'equivoco. Senza escludere l'ipotesi che sia voluto.
È stata resa pubblica ieri la quarta edizione del documento La formazione dei presbiteri nelle Chiese in Italia. Orientamenti e Norme per i Seminari, promulgato il 1° gennaio scorso da parte del Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, il cardinale Matteo Zuppi, dopo esser stato approvato dall'Assemblea Generale della CEI, riunitasi ad Assisi dal 13 al 16 novembre 2023, ed aver ricevuto la necessaria conferma da parte del Dicastero per il Clero. La Ratio, che sarà ad experimentum per un triennio, è entrata in vigore giovedì 9 gennaio e sostituisce quella promulgata nel 2006 dal cardinale Camillo Ruini.
E sui quotidiani nazionali è un coro unanime: la CEI apre il seminario ai gay; purché siano casti. «I seminari italiani ammetteranno candidati al sacerdozio omosessuali, purché da parte loro – come peraltro viene richiesto anche ai candidati eterosessuali – si garantisca l’impegno a “scegliere liberamente e vivere responsabilmente la castità nel celibato”», attacca il Corriere della Sera. La Repubblica parla di «spiragli» aperti per i gay, sebbene poi il testo dell'articolo sia più circostanziato; Tgcom24 titola: «Ok anche ai gay in seminario, ma essenziale è la castità».
A ben vedere però il §44 dei nuovi Orientamenti non dice proprio così. Esso riprende invece la Ratio fundamentalis della Congregazione per il Clero (2016), al n. 199, che a sua volta riportava l'Istruzione del 2005 della Congregazione per l'Educazione cattolica: «In relazione alle persone con tendenze omosessuali che si accostano ai seminari o che scoprono nel corso della formazione tale situazione, in coerenza con il proprio Magistero, la Chiesa, pur rispettando profondamente le persone in questione, non può ammettere al Seminario e agli Ordini sacri coloro che praticano l'omosessualità, presentano tendenze omosessuali profondamente radicate o sostengono la cosiddetta cultura gay. Le suddette persone si trovano, infatti, in una situazione che ostacola gravemente un corretto relazionarsi con uomini e donne. Non sono affatto da trascurare le conseguenze negative che possono derivare dall'Ordinazione di persone con tendenze omosessuali profondamente radicate».
Il testo pone dunque come discriminante non solo la pratica dell'omosessualità e l'appoggio alla cultura gay (richiamo che vale anche per chi omosessuale non è), ma anche il radicamento di questa tendenza, evitando però alcune precisazioni della Ratio precedente, che erano utili per cogliere i segni caratteristici di questo radicamento, ossia che «il giovane sia cosciente della radice del suo problema […]; avverta la sua debolezza come un corpo estraneo alla sua personalità; sia in grado di controllare questa debolezza in vista di un superamento» (n. 53). A parte l'infelicità di alcune espressioni, il testo rendeva bene il concetto che ad essere incompatibile con la vita sacerdotale è in sostanza l'identificazione di sé come omosessuale, sostenere in pratica di “essere fatti così”, senza voler correggere e superare questa situazione, che non è dunque compresa come un disordine, ma come una tendenza naturale. Gli Orientamenti riprendono altresì l'indicazione di risolvere eventuali tendenze omosessuali transitorie «almeno tre anni prima dell'Ordinazione diaconale», proprio per assicurarsi che il candidato al sacerdozio abbia superato quello che è considerato, a ragione, come un disordine.
Ad aprire la prospettiva per una comprensione più permissivista delle norme è il testo che viene subito dopo: «Nel processo formativo, quando si fa riferimento alle tendenze omosessuali, è anche opportuno non ridurre il discernimento solo a tale aspetto, ma, così come per ogni candidato, coglierne il significato nel quadro generale della personalità del giovane, affinché […] giunga ad un'armonia generale». Si fa particolare riferimento alla castità del celibato come «atteggiamento che esprime il contrario del possesso», come superamento delle «forme della possessività, che non si lasci sequestrare dalla competizione e dal confronto con gli altri e sappia custodire con rispetto i confini dell'intimità propria e altrui».
L'esortazione a non ridurre il discernimento all'aspetto della tendenza omosessuale è piuttosto equivoca. Si potrebbe interpretare correttamente che il discernimento del candidato al sacerdozio, nell'ambito della sfera affettiva e sessuale, non si limita solo alla questione dell'omosessualità, ma si apre al più ampio significato del celibato; ma si potrebbe anche intendere che i criteri di non ammissione al seminario e agli Ordini sacri appena indicati siano da rivalutare alla luce di una fumosa idea di castità come liberazione dalla possessività, dalla competizione e dal confronto. Che tradotto significa: se vivi la tua omosessualità come dono e non come “competizione”, allora puoi diventare sacerdote.
Rimosse da un alto le precisazioni degli orientamenti del 2006, che si concentravano proprio sulla valutazione del radicamento dell'omosessualità, sulla base che si tratta di un disordine da correggere e superare, e diluiti dall'altro i criteri della Ratio del 2016 in un profluvio di caliginose parole sulla castità, il risultato è quello che troviamo sui quotidiani. E non è da trascurare l'ipotesi che qualcuno abbia incaricato proprio la stampa di mostrare ai rettori dei seminari la direzione del nuovo discernimento, dal momento che nel testo ufficiale non si poteva essere troppo espliciti.
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