Gambia e Tanzania vietano le spose bambine
Il presidente del Gambia, Africa Occidentale, al potere dal 1994 con un colpo di Stato e determinato a mantenerlo a qualsiasi costo, ha appena firmato una legge che proibisce i matrimoni infantili che ogni anno trasformano milioni di bambine e di adolescenti in mogli-schiave. Anche la Tanzania ha varato una legge simile.
Può un dittatore noto per le gravi violazioni dei diritti e delle libertà personali fare per una volta la cosa giusta? Yaya Jammeh, presidente del Gambia, Africa Occidentale, al potere dal 1994 con un colpo di Stato e determinato a mantenerlo a qualsiasi costo, ha appena firmato una legge che proibisce i matrimoni infantili che ogni anno trasformano milioni di bambine e di adolescenti in mogli di uomini che a mala pena conoscono, scelti persino a loro insaputa dai genitori legittimati a farlo da tradizioni millenarie.
Il matrimonio combinato ed eventualmente forzato è un’istituzione tipica delle società patriarcali e delle economie arcaiche. Prescrive che siano i genitori a decidere chi sposa chi. Vale sia per i maschi che per le femmine, ma, oggi come in passato, sono le figlie le più penalizzate, quelle che ne ricavano più danno. Oggi, per una ragazzina africana, sposarsi vuol dire quasi sempre interrompere gli studi e affrontare gravidanze e maternità rischiose per il suo organismo ancora immaturo.
Al matrimonio combinato in molte etnie tradizionalmente si accompagna un’altra istituzione, il prezzo della sposa: il marito deve corrispondere ai genitori un compenso per la figlia che gli verrà consegnata. Questa istituzione, tuttora rispettata da molti africani, a sua volta ostacola la lotta contro le mutilazioni genitali femminili perché gli uomini che vogliono sposare donne mutilate non sono disposti a pagare per una che non lo sia.
Il Gambia ha proibito le mutilazioni genitali femminili nel 2015 e adesso chi sposa una minorenne rischia fino a 20 anni di carcere. Lo ha annunciato il presidente Jammeh in persona il 6 luglio: «A partire da oggi il matrimonio prima dei 18 anni in Gambia è illegale; e se volete sapere se quel che dico è vero o no, domani non avete che da provare e vedrete!». Sua moglie, la first lady Zineb, ha espresso a sua volta pieno sostegno al bando del matrimonio infantile con belle parole: «non ci possiamo più permettere», ha detto, «di consentire che i matrimoni infantili mortifichino le nostre belle ragazze. Eliminarli deve essere una priorità affinché le nostre ragazze possano crescere bene e contribuire alla crescita e allo sviluppo del nostro Paese».
Due giorni dopo, l’8 luglio, anche il Tanzania ha varato una legge che porta da 15 a 18 anni l’età minima per il matrimonio. I mariti e i genitori di donne sposate minorenni rischiano 20 anni di carcere. Il presidente John Magufuli ha assicurato che i trasgressori saranno puniti senza eccezioni: «e guai a chi ometterà di denunciare un caso di minore costretta a sposarsi». Pene ancora più pesanti sono previste per chi mette incinta o sposa una studentessa: fino a 30 anni di carcere.
Almeno il 40% delle donne africane si sposa prima dei 18 anni. Le first lady di Gambia e Tanzania insieme alle mogli di molti altri capi di stato e di governo africani hanno promosso una campagna, “No ai matrimoni infantili”, organizzata per sensibilizzare opinione pubblica e governi. Ma quasi tre quarti degli Stati africani ancora non vi hanno aderito. Oppure lo hanno fatto senza convinzione. Il Malawi, ad esempio, nel 2015 ha elevato a 18 anni l’età del matrimonio, ma lasciando in vigore la norma costituzionale che lo ammette tra i 15 e i 18 anni purché con il consenso dei genitori. Per di più la costituzione sconsiglia il matrimonio prima dei 15 anni, ma non lo proibisce.
In compenso, nei giorni scorsi il presidente malawino Peter Mutharika ha ordinato alla polizia e ai capi tradizionali di indagare su «tutti gli uomini e i genitori» coinvolti in una istituzione tribale, un rito di passaggio a cui vengono sottoposte le ragazze di alcune etnie dopo la prima mestruazione. Il rito prevede una cerimonia di “purificazione” che consiste in un rapporto sessuale con un uomo assunto dai genitori a tale scopo. Il comunicato ufficiale emesso dall’ufficio di presidenza dice tra l’altro: «queste pratiche non solo gettano un’ombra sulle faticose conquiste del mio governo in fatto di lotta alla violenza e prevenzione dell’Hiv, ma vanno contro un’idea di sviluppo che cerca di assicurare ai giovani e in particolare alle giovani la possibilità di una piena realizzazione personale. Inoltre queste orribili pratiche macchiano l’immagine del Malawi a livello internazionale e ci coprono di vergogna».
Tutto è partito dall’arresto di un uomo, Eric Aniva, accusato di aver “purificato” oltre 100 adolescenti. Il riferimento all’Hiv nel documento presidenziale si deve al fatto che l’uomo oltre tutto è sieropositivo, sapeva di esserlo, e può aver contagiato le ragazze con cui ha avuto rapporti sessuali. Tutti in Malawi, ovviamente, sapevano dell’esistenza di questo rito di purificazione. È sapevano che certe etnie prevedono la purificazione, tramite un rapporto sessuale con un estraneo incaricato dalla famiglia, anche delle vedove, prima del funerale del marito, e delle donne che abortiscono. Ma solo adesso le vittime possono raccontare la loro paura e il disgusto per lo stupro subito, perché di questo si tratta.
Non si potevano opporre, dicono, più forte di tutto era il timore di dispiacere ai genitori, ai parenti, e di violare la tradizione: «bisogna farlo o succedono cose terribili a tutta la famiglia, all’intero lignaggio». Eric Aniva, meglio conosciuto come “Iena”, il nome dato a chi svolge la sua “professione”, è in carcere in attesa di giudizio. La stessa sorte attende chi voglia continuare la tradizione finalmente vietata, assicura il portavoce presidenziale: «che sia una tradizione poco importa, è contro la legge».