Gabbani, passi per il karma, ma il cuore vuole di più
Il divertente sfottò dei tic occidentali che cercano pace nelle filosofie orientali, ma alla fine incappano nel conformismo edonista che li rende come Buddha in fila indiana. Quante verità nella divertente canzone di Francesco Gabbani che ha trionfato a Sanremo. Ma il nostro cuore non è un ammasso di istinti scimmieschi. Desidera, spera e alza la testa per cercare una verità non una semplice tranquillità interiore.
D’accordo: l’immagine di un Buddha in fila indiana che si perde nel tumultuoso vortice della modernità fatta di consumistici bisogni è molto simpatica. Come lo è il Francesco Gabbani da Carrara che con la sua Occidentali’s Karma ha conquistato il palco dell’Ariston vincendo il Festival di Sanremo. Canzone che ha vinto con merito, perché intelligente, perché almeno ci costringe a interrogarci sul senso e a mettere in moto le meningi. Canzone ermetica, nel senso che nessuno ieri l’aveva capita in fondo, fino a quando lui non ha dovuto giustificare quel che il ritornello travolgente e il balletto con tanto di scimmione non riuscivano a dire. Così l’autore ha dovuto spiegarla al grande pubblico l’indomani la vittoria e già questo è sconfortante, ché quando devi spiegare l’arte finisci sempre per dirne due o tre di troppo.
Infatti. Gabbani dice che il testo è costruito sul contrasto, riuscito, tra le smanie orientaleggianti dell’uomo occidentale fatte di ricerca del Nirvana e di Karma e che si traducono, immaginiamo noi, con la yoga mania dei giorni nostri, lo shatzu, il tofu e lo zen e smanie simili. Dall’altra parte però c’è una realtà fatta del peggio del nostro conformismo consumistico: viviamo in una gabbia 2x3, siamo internettologi soci onorari del gruppo dei selfisti anonimi, ci accontentiamo di risposte facili e abbiamo dilemmi inutili. Siamo tutti tuttologi col web, un web che è coca dei popoli e oppio dei poveri, ma che non ci dà nessun sex appeal.
Figure, dice lui. Figure che hanno la funzione di provocare «per fare un esame di coscienza sul tipo di atteggiamento che abbiamo noi» (ma noi chi?) «di avvicinarci alle filosofie orientali alla ricerca di tranquillità interiore. Però ci avviciniamo, sacrificandole sull’altare dell’apparenza e della moda».
Sarà, però è vero che la canzone una verità pur non esplicitandola, la dice lo stesso: l’uomo ha abbandonato la sua casa dove albergava il suo senso religioso cristiano che l’aveva nutrito nei secoli, rendendolo un esemplare di equilibrio perfetto tra anima e corpo, tra fede e tecnica, però dato che questo senso religioso non può essere soppresso si è buttato su Buddha e compagnia orientaleggiante.
Solo che l’ascesi e la contemplazione sono cosa dura nel mondo di oggi dove ti devi mettere in fila per fare tutto, soprattutto per il sushi. E se per raggiungerle devi esercitare una tecnica senza sperare mai in una Grazia che ti aiuti, hai voglia a sforzati di dire sempre “ommmhhh….”
Ne consegue che anche il tentativo di approdare sui lidi della pace interiore zen è destinato ad abortire. No, evidentemente non c’è pace neppure lì soprattutto se la si deve barattare con le nostre comodità e condividere con l’ultimo “Samsung S e qualcosa” appena uscito.
Resta un’incompiuta di fondo, di cui l’autore si duole, e che si risolve nel fatto che, citando un fortunato libro di uno zoologo, Desmond Morris, non siamo altro che scimmie nude. Nude perché senza peli, però sempre scimmie. Insomma: neo darwinismo e anche tra i più spinti. Quindi: istinti bestiali, bisogni primari e per il resto ci pensa la natura a soddisfare i nostri ferini pruriti. Della serie: balla che ti passa, alè!
Lui, il Gabbani, dice che ci pavoneggiamo pensando di essere sviluppati intellettualmente, ma in realtà siamo delle scimmie. A parte che scimmia ci sarai tu, però siccome il personaggio è simpatico, intelligente e soprattutto non banale e la canzone merita, lo tratteremo senza infingimenti moralisteggianti.
Cari scimmioni: è l’aver abbandonato il Dio creatore incarnatosi morto e risorto per rifugiarvi in una spiritualità fatta di tecnica senza alcuna metafisica di supporto, ad avervi delusi. Perché vi siete accorti che questa da sola non basta a giustificare l’attesa in fila indiana nella cassa prescelta che è poi sempre quella dove si inceppa qualche cosa. Così siete tornati indietro delusi, speravate che qualche Visnu vi rialzasse dalla vostra incredulità, ma non vi resta che ballare sul pavimento come scimmie nude. Senza interrogarvi più su quella pace interiore che bramavate.
Eppure, se vi fermaste a pensare e soprattutto se aveste fatto meno km, vi sareste accorti che il vostro cuore non è un ammasso indistinto di bisogni e istinti. E’ anche anima e desiderio, è speranza e gioia, è anelito di eternità, non si accontenta della pace interiore, vuole anche quella esteriore che si chiama Verità. Ed è questo che vi fa alzare la testa a cercare come naufraghi un tronco di legno cui aggrapparvi.
Ecco: quel tronco era la fede che il brodo di coltura in cui siamo cresciuti ci ha tolto perché è la sola che sa rendere ragione dell’armonia tra l’anima e gli impulsi organici. Siete tornati dall’Oriente con più domande di prima, ma non vi dona l’arte del nichilismo diabolico e scimmiesco: anche voi siete fatti per guardare il Cielo. Il consiglio potrebbe essere un buon San Paolo, ma anche l'ultimo di Baustelle: «Resta poco tempo per capire il significato dell’amore, l'idiozia di questi anni, il Vangelo di Giovanni, la mia vera identità».