G7, la strada difficile per il nuovo blocco anglosassone
Al primo giorno del vertice del G7 di Biarritz, si è notata una tendenza ormai chiara: sta nascendo un blocco anglo-sassone alternativo all’Ue. Fra Trump e Johnson c'è intesa e sono iniziati i primi passi concreti per il trattato di libero scambio Usa-Regno Unito. Ma le difficoltà da superare sono molte.
Al primo giorno del vertice del G7 di Biarritz, si è notata una tendenza ormai chiara: sta nascendo un blocco anglo-sassone alternativo all’Ue. Alternativo, non complementare. Mentre i rapporti fra il presidente Usa Donald Trump e la premier britannica Theresa May erano sempre stati piuttosto freddi, fra Trump e il nuovo primo ministro Boris Johnson, c’è intesa. Al punto che già si è iniziato a parlare di un prossimo accordo di libero scambio fra le due potenze anglosassoni. Ed ovviamente emergono le prime difficoltà, sia politiche che economiche, alla sua realizzazione. Ma il resto dell’Ue appare sullo sfondo, in questi colloqui.
La strategia di Johnson, fin dal 2016, è quella della “Global Britain”, una Gran Bretagna globalizzata che, una volta libera dai lacci e lacciuoli imposti dalle istituzioni dell’Ue, possa stipulare trattati di libero scambio con altri sistemi del mondo, a partire dagli Stati Uniti. Secondo Johnson e altri sostenitori più liberali della Brexit, l’uscita dall’Ue deve dunque costituire un’apertura ulteriore e non una chiusura, trattarli diverrebbe, dal loro punto di vista, più facile che assieme agli altri 27 membri dell’Ue, ciascuno con i propri interessi nazionali, sistemi economici differenti e diverse rivendicazioni. Il Trattato transatlantico (Ttip) con gli Usa era fallito soprattutto per l’opposizione interna a Francia e Germania, per esempio. Una Gran Bretagna da sola, che ha già regole e cultura giuridica più affini alla sua ex colonia americana, potrebbe trattare più agevolmente.
Dal punto di vista americano, mentre Obama era esplicitamente contrario all’idea di una Brexit, poiché preferiva trattare con tutta l’Ue, Trump ha sempre incoraggiato l’uscita del Regno Unito dall’Ue e in particolar modo ha visto da subito in Boris Johnson, già ministro degli Esteri, il suo interlocutore preferito. Anche gli Usa hanno tutto l’interesse a creare un’anglo-sfera integrata che sia concorrente alla Francia e alla Germania.
Alcuni passi pratici sono stati compiuti in questa direzione. All’inizio di agosto, dunque prima del G7 di Biarritz, il consigliere per la Sicurezza Nazionale (già ambasciatore all’Onu) John Bolton, si è recato a Londra per i preliminari della futura trattativa, iniziando a discutere con funzionari del governo britannico sui settori da includere nel trattato prossimo eventuale, fra cui soprattutto manufatti e servizi finanziari. Sia Trump che Johnson dicono nero su bianco che i servizi sanitari britannici non saranno inclusi in alcun modo nel prossimo accordo. Perché, nel Regno Unito, soprattutto, lo spauracchio di veder venduti gli ospedali e i loro servizi a compagnie americane è un tema ricorrente dell’opposizione. Al G7, i due leader anglo-sassoni hanno annunciato anche la nascita di un Gruppo di Lavoro per la Relazione Speciale Economica.
Proprio perché si sta entrando nella fase pratica del negoziato (non solo dichiarazioni di intenti), stanno emergendo le prime differenze e difficoltà. Johnson, a Biarritz ha iniziato a sollevare i problemi con gli Usa, fra cui una serie di divieti di esportazione nel mercato americano, tariffe e obblighi che riguardano prodotti britannici del settore alimentare. C’è disaccordo anche sulla guerra commerciale con la Cina. “Siamo favorevoli alla pace commerciale, nel suo insieme” ha dichiarato il premier britannico, in questo più vicino agli omologhi dell’Ue che non agli Usa. Ma Trump è stato netto: nel pomeriggio di ieri, un comunicato della Casa Bianca afferma che, se c’è una cosa su cui Trump può sentirsi in colpa, semmai, è sul fatto di non aver alzato ancor di più le tariffe sui prodotti cinesi.
Vi sono anche diverse altre questioni su cui Trump e Johnson non vanno d’accordo. Sull’Iran (il cui ministro degli Esteri Zarif è stato invitato da Macron a partecipare al G7, ma non ha ottenuto alcun colloquio con Trump), Johnson è allineato con i leader dell’Ue ed è favorevole a mantenere gli accordi sul nucleare. Trump è tassativamente contrario. Parti invertite sulla Russia, invece: Trump sarebbe favorevole a riammetterla al G7 (che in questo modo diverrebbe di nuovo G8, come era prima del 2014), ma Johnson è uno dei leader più contrari alla proposta. Sulla guerra commerciale degli Usa alla Cina, non solo il premier britannico è contrario per principio, ma all’atto pratico non ha aderito, almeno finora, alla politica di sanzioni varata dagli Usa contro il colosso delle telecomunicazioni Huawei. Sull’ambiente, sia Trump che Johnson sono sempre stati riconosciuti come “eco-scettici”, ma almeno da quando è premier, il conservatore britannico pare proprio aver cambiato tono e linea, allineandosi anche su questo con l’Ue nella lotta al cambiamento climatico. Ed è dura la sua condanna contro il Brasile per gli incendi in Amazzonia, mentre da Trump sta arrivando uno dei maggiori sostegni al presidente Jair Bolsonaro.
Ma l’ostacolo più duro da superare potrebbe essere interno agli Usa, dove Nancy Pelosi, presidente Democratica della Camera dei Rappresentanti, ha già dichiarato guerra all’accordo di libero scambio con il Regno Unito, prima ancora che si inizi a discuterlo. Ha infatti dichiarato ieri che il Congresso non voterà mai per un trattato che, partendo dalla premessa della Brexit, metta a rischio gli Accordi del Venerdì Santo con l’Irlanda. Gli Usa, terra di diaspora irlandese da due secoli, sono molto sensibili al tema. Se dovesse essere ripristinata la frontiera rigida fra Repubblica di Irlanda e Irlanda del Nord, in Nord America la crisi verrebbe vissuta quasi come se fosse in casa.