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BUENOS AIRES

G20, ritratto di un mondo profondamente diviso

Il G20 raramente ha prodotto risultati concreti. I paesi delle 20 maggiori economie mondiali sono troppo diversi e distanti fra loro per definirsi parte di una stessa comunità. Ma in questa edizione a Buenos Aires, c'è lo specchio di un mondo diviso. Si litiga su: omicidio Khashoggi, crisi militare in Ucraina, guerra commerciale fra Usa e Cina

Esteri 01_12_2018
G-20 foto di gruppo

Il G20 raramente ha prodotto risultati concreti. Il summit riunisce i vertici delle 20 maggiori economie del mondo, che messi assieme producono l’85% del Pil mondiale e sono abitate dai due terzi della popolazione mondiale. Ma a parte le dimensioni impressionanti dell’evento, i paesi sono troppo diversi e distanti fra loro per potersi considerare come una comunità. Più che altro è un’occasione di incontro ai margini dell’evento ufficiale, quando i leader parlano fra loro in conferenze separate, meeting bilaterali o discussioni da corridoio, per stringere accordi, appianare controversie, spiegarsi dopo periodi di tensione. Ieri, tuttavia, i leader delle potenze economiche mondiali sono apparsi più divisi che mai. Sono troppe le crisi che li hanno divisi e portati sull’orlo del conflitto.

Foto di gruppo: la prima caratteristica che balza all’occhio è la distanza fra il presidente turco Recep Tayyip Erdogan (prima fila penultimo a sinistra della foto, per chi guarda) e il principe saudita Mohammed Bin Salman (seconda fila, ultimo a destra per chi guarda). Non è casuale: i due capo di Stato (uno ufficiale, l’altro ancora reggente) sono separati dalla crisi iniziata con l’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi nella sede del consolato saudita di Istanbul. I sauditi attribuiscono la colpa a servizi segreti deviati, che avrebbero agito di loro sponte. I turchi, tuttavia, ritengono di avere abbastanza prove per dimostrare che il giornalista dissidente è stato assassinato per ordine del principe Bin Salman. E il problema è che anche la Cia conferma la stessa tesi, anche se il presidente Trump, finora, non ha minacciato serie conseguenze contro l’Arabia Saudita. Il G20 non è stata l’occasione per infliggere a Bin Salman una serie di rimproveri. Da parte del presidente francese Emmanuel Macron, che dice di essere stato “molto severo” col principe. Da parte della premier britannica Theresa May, che, stando al suo portavoce, ha chiesto di fare luce sui responsabili dell’omicidio di Khashoggi. Il principe è invece apparso perfettamente a suo agio con il presidente americano Trump, che dice di aver avuto con lui un incontro “molto amichevole”, ma nessuna discussione. Abbracci anche fra il saudita e Putin: possono essere solo convenevoli, ma sei giorni fa lo stesso Bin Salman ha incontrato anche Ramzan Kadirov, leader musulmano della Cecenia, fedelissimo al presidente russo. Nel nuovo “grande gioco” del Medio Oriente, è possibile che l’Arabia Saudita faccia capire che può pendere anche dalla parte dei russi, se gli occidentali protestano troppo sul caso Khashoggi. Esattamente come aveva fatto Erdogan, due anni fa, dopo il fallito golpe contro di lui.

“Dialogo, dialogo e ancora dialogo” è l’esortazione del presidente argentino Mauricio Macrì. Ma lui stesso ha dovuto ammettere che ci sono “problemi” fra il suo paese e il Regno Unito. Non si sa ancora cosa il capo di Stato argentino e Theresa May si siano detti in una breve conversazione ai margini dei lavori, ma sotto la precedente amministrazione Kirchner, l’Argentina era arrivata di nuovo ai ferri corti con Londra, per le isole all’estremità del mondo, già causa della sanguinosa guerra fra i due Paesi del 1982.

Invece, non c’è stato alcun incontro fra Trump e Putin, come era programmato da mesi. Il vertice fra i due presidenti è saltato a causa della crisi militare in Ucraina. I 23 marinai ucraini catturati dai russi domenica scorsa, a seguito dello scontro navale nel Mar d’Azov, sono tuttora nelle mani dei russi. Finché non saranno restituiti, dice Trump, non vi sarà alcun incontro. Da notare, però, che questa presa di posizione a difesa dell’Ucraina è recentissima. Solo quando era già in volo sull’aereo presidenziale, Trump ha deciso di annullare il vertice. Prima aveva annunciato un possibile annullamento, ma alla vigilia della partenza per Buenos Aires, aveva lasciato intendere che il summit si sarebbe potuto ancora tenere. Cosa ha fatto cambiare idea al presidente? Secondo l’ufficio stampa della Casa Bianca, Sarah Sanders, ha cambiato idea dopo una conversazione telefonica con il capo dello staff John Kelly, il segretario di Stato Mike Pompeo e il Consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton. Il motivo dichiarato dell’annullamento dell’incontro è, appunto, la mancata liberazione dei marinai ucraini catturati dai russi. Il presidente Usa, ancora una volta, è apparso poco convinto e titubante quando deve affrontare il dossier Russia.

E d’altra parte, su quell’argomento, ha ancora la spina nel fianco dell’inchiesta Russiagate. Che non ha ancora trovato alcuna prova di collusione fra Trump e il Cremlino per le elezioni del 2016, ma continua a gettare nel ventilatore dei media dettagli che rafforzano sospetti e rancori. L’ultimo è la tarda confessione di Michael Cohen, già avvocato di Donald Trump: due giorni fa ha dichiarato di aver mentito sull’affare concluso in Russia per la costruzione di una nuova Trump Tower a Mosca. Secondo la precedente deposizione alla Camera, infatti, Cohen aveva affermato che i lavori e i contatti fossero terminati nel gennaio del 2016, dunque prima dell’inizio della campagna elettorale presidenziale. Invece, secondo le prove trovate dal super-procuratore Robert Mueller e questa seconda confessione di Cohen, lui stesso avrebbe continuato le trattative con i russi anche nel pieno della campagna elettorale. Trattative per la costruzione della Trump Tower. Non su eventuali interventi russi nel processo elettorale americano. Ma il sospetto basta e avanza per creare un clima non sereno, in un momento di crisi. Come sempre: giustizia ad orologeria perfettamente funzionante.

Oggi, comunque, gli occhi sono puntati sull’incontro che si terrà, a cena, fra Trump e il presidente cinese Xi Jinping. Fra Cina e Usa, la prima potenza emergente e la prima potenza del mondo, è infatti in corso una guerra commerciale senza esclusione di colpi. Sulle merci cinesi importate negli Stati Uniti, attualmente, sono state imposte tariffe che potrebbero crescere di colpo allo scoccare del nuovo anno. Dal 1 gennaio, su importazioni cinesi pari a un valore di 200 miliardi di dollari, le tariffe potrebbero passare dal 10% attuale al 25%. E Trump minaccia di imporne di nuove su tutti i 505 miliardi di importazioni dalla Cina. Dal canto suo Pechino ha risposto imponendo dazi su prodotti americani, soprattutto agro-alimentari, danneggiando la stessa base elettorale rurale del presidente americano. Trump mira a spingere la Cina a condurre una riforma che apra il suo mercato alle esportazioni statunitensi e rispetti i diritti di proprietà intellettuale e il know how tecnologico delle aziende che lavorano in Cina. Gli esperti del Wall Street Journal ritengono che vi sia solo il 5% di probabilità che un accordo del genere possa essere raggiunto questa sera. Più probabile, comunque, che Xi e Trump raggiungano un accordo di compromesso dai termini vaghi per permettere nuovi negoziati nel prossimo futuro.