Fuoco e degrado, a Roma tollerata una città parallela
Le fiamme che hanno distrutto il ponte dell'Industria, sono frutto di un incendio colposo, partito da una delle baraccopoli costruite abusivamente lungo il Tevere. Roma, da almeno trent'anni, ha rinunciato ad ogni progetto e nell'immobilismo si è creato degrado. Un falso spirito di accoglienza tollera la crescita di una città parallela di disperati.
Le fiamme che nella notte tra sabato e domenica hanno avvolto e distrutto il ponte dell’Industria (dai romani chiamato anche ponte di ferro) raccontano in maniera plastica cosa è successo alla capitale d’Italia negli ultimi decenni di decadimento, incuria e mancata progettazione.
A 48 ore dalla sciagura è ormai evidente la natura colposa dell’incendio, causato da un fornello alimentato da una bombola del gas, presente in uno dei tanti accampamenti abusivi lungo gli argini del Tevere. Il rogo partito dalle baracche è un evento annunciato, numerose sono state infatti le denunce e gli esposti di associazioni, comitati di quartieri, amministratori locali e semplici cittadini. La bonifica dell’area è stata chiesta più volte e da più parti. Tutte campane inascoltate fino a che le fiamme non hanno consumato la struttura costruita nel 1862, uno degli elementi più riconoscibili dell’ex quartiere industriale dell’Ostiense, insieme al gazometro, alla centrale elettrica Montemartini (ora museo) e agli ex mercati generali. Un’area di pregio appena fuori dal centro, a sud delle mura aureliane a due passi dalla Basilica di San Paolo, da almeno 20 anni al centro di progetti di recupero dell’archeologia industriale fermi su carta e mai nemmeno finanziati.
Il drammatico epilogo del ponte dell’Industria, infrastruttura avveniristica ai tempi della sua costruzione, rappresenta dunque la summa di molti mali che affliggono la città eterna. Due però sono le piaghe più evidenti in cui vanno ricercate le radici del rogo, in primis il mancato rifacimento e ammodernamento della rete infrastrutturale e in secondo luogo il degrado e l’insicurezza che grava su alcune aree diventate terra di nessuno.
Sul piano urbanistico, basta dire che a Roma, ad esclusione di un paio di ponti pedonali (della Musica e della Scienza), dal dopo guerra in poi non sono stati fatti più collegamenti tra una parte e l'altra del Tevere. Strade, ferrovie, tunnel e cavalcavia scontano decenni di onorato servizio e di scarsa manutenzione. Giusto per portare un altro caso emblematico: dal mese scorso la linea metropolitana che collega il centro con il Lido di Ostia ha ridotto convogli e stazioni di passaggio per la mancanza di treni agibili. La classe politica dell’Urbe da decenni ha smesso di progettare, rinnovare, di pensare in grande, di proiettare la città nella sua dimensione europea e mondiale. La visione pauperista dei Cinque stelle, con i suoi ‘No’ allo stadio, alle nuove metro, alle Olimpiadi ha solo accelerato un processo di decadimento partito almeno dagli anni Novanta.
In questa cornice hanno parallelamente proliferato il degrado, l’incuria e l’insicurezza. Stazioni, aree verdi, strutture abbandonate, sottopassi e gli stessi argini del Tevere sono diventati il ricettacolo di sbandati, senzatetto, rom e punkabbestia di diverse nazionalità che vivono fra immondizia, lamiere, coperte e cartoni usati per comporre i loro giacigli di fortuna. Tutto questo è stato tollerato dalle istituzioni, per inerzia, incapacità di intervento, burocrazia, conflitto di competenze e anche un ideologico ed errato senso di accoglienza che nulla a che vedere con la vera solidarietà e che alimenta solo guerre tra poveri.
La più grande sconfitta di Roma - che nei secoli è stata refugium peccatorum di tutte le classi sociali, essendo capace di dare risposte dignitose anche a disperati provenienti da ogni angolo del mondo – è stata l’incapacità di conciliare accoglienza e legalità. A Roma non mancano mense, dormitori, bagni, docce e ambulatori aperti 24 ore su 24 per clochard e senza fissa dimora. Eppure le istituzioni hanno chiuso tutte e due gli occhi mentre le baraccopoli abusive sfuggivano ad ogni controllo. L’emergenza si è verificata prima in maniera più acuta nelle periferie, dove a rimetterci sono stati i più poveri e dove il malcontento popolare è stato bollato come “razzismo” dall’intellighenzia della Ztl; poi con il passare degli anni il degrado è arrivato in pieno centro storico, sotto i ponti e sugli argini del Tevere è cresciuta una città parallela, teatro di tristi fatti di cronaca, compresi alcuni omicidi di persone gettate nel fiume nel corso di risse tra sbandati.
Dai muraglioni del centro alla periferia, dove gli accampamenti sono diventati vere e proprie baraccopoli con centinaia di abitanti. Le aree verdi golenali che costeggiano il fiume sono il luogo scelto da grandi comunità, in cui avviene ogni sorta di illegalità (prostituzione, lavoro minorile, racket dell’accattonaggio, taccheggio organizzato…). Le prime vittime sono proprio gli abitanti stessi di questi luoghi. Minori e donne sfruttate che vivono tra topi, spazzatura e persone senza scrupoli. Il pietismo di chi tollera queste situazioni alimenta il circolo vizioso del degrado e dello sfruttamento. Sgomberi, censimenti, ricollocazione in strutture di accoglienza (nella capitale ce ne sono decine sottoutilizzate) e percorsi di integrazione e istruzione possono essere applicati solo se non viene meno il principio della legalità. Ma a Roma non sembrano esserci le premesse politiche, economiche e sociali per invertire la rotta.