Fuga dall'euro, facile panacea di tutti i mali
In vista delle Elezioni Europee, un dibattito molto caldo è sull'Euro. Viene spesso affrontato in modo ideologico, ma la crisi rende necessario affrontare l'argomento. Ecco il primo intervento: la moneta unica non è la causa della nostra febbre.
In vista delle Elezioni Europee, uno degli argomenti più dibattiti è senz'altro la moneta unica, ovvero l'Euro. Restare o uscire? Ed eventualmente a quali condizioni? Si tratta di un dibattito spesso spinto da motivi ideologici o elettorali, ma la crisi economica che stiamo attraversando rende necessario affrontare l'argomento, anche se pensando all'Europa e alle sue priorità, non è certo la moneta il problema fondamentale. Con questo intervento di Maurizio Milano, intendiamo perciò aprire un dibattito sul tema, nella consapevolezza che non ci sono soluzioni perfette e indiscutibili, dando perciò spazio a posizioni anche diverse ma accomunate da una analisi seria della situazione.
Le critiche alla "rigidità" dell'euro, di pari passo con le lamentele per le supposte politiche di "austerità" imposte all'Italia ed ai Paesi periferici dell'area euro dalla "inflessibile" Germania della Merkel, sono oramai un mantra che attraversa l'intero schieramento politico, dai partiti di sinistra ed estrema sinistra fino ai partiti di destra e centro-destra, dai sindacati agli economisti, dagli opinion leader all'uomo della strada. Tentare quindi una difesa dell'euro espone al rischio evidente di impopolarità. Ci proviamo, comunque, confortati anche dalla statistica: le tesi più popolari ed in voga, infatti, difficilmente colgono nel segno e peccano sempre, quanto meno, di semplicismo.
La moneta comune europea è stata introdotta, a livello interbancario, a gennaio 1999, dopo la definizione di cambi bilaterali fissi tra le varie divise europee nel maggio del 1998. A partire dal gennaio 2002 inizia la stampa fisica delle banconote che andranno a sostituire, dopo un periodo di doppia circolazione, le rispettive valute nazionali.
Che cosa accade ai tassi di interesse a partire dalla seconda metà degli anni '90? Le prospettive di unione monetaria avviano un processo di progressiva convergenza che porta ad un vero e proprio tracollo dei tassi di interesse dei Paesi più indebitati, come ad es. l'Italia, abituata ad avere prima dell'euro una struttura di tassi decisamente più elevati rispetto a Paesi più solidi come la Germania. In altre parole, i mercati finanziari iniziano a guardare all'area euro come ad una vera unione, e per il fatto stesso che i debiti sovrani dei Paesi membri sono denominati in euro, il rischio emittente viene considerato come marginale.
Ad inizio anni '90 l'Italia ha rischiato un collasso del proprio sistema finanziario: la convergenza verso il basso dei tassi di interesse, resa possibile dall'euro, ha determinato un forte risparmio nella spesa per interessi passivi, dandoci l'occasione storica di porre fine a decenni di politiche di deficit spending, al continuo espandersi della spesa pubblica e del perimetro dello Stato.
L'occasione, tragicamente, è stata gettata via: il risparmio sul servizio del debito reso possibile dall'euro, infatti, non è stato utilizzato per abbattere consistentemente il debito pubblico, ma è servito per aumentare ulteriormente la spesa pubblica. Mentre la Germania ha lavorato per aumentare l'efficienza e la produttività, la classe politica italiana ha "venduto" al Paese il sogno di anni di prosperità senza sacrifici.
Poi, però, nel 2008 è arrivata la crisi finanziaria-economica mondiale e, a partire dalla primavera del 2011, la crisi del debito sovrano dell'area euro. Lo spread tra i titoli di Stato dei Paesi periferici ed i Paesi core, come la Germania, esplode, risalendo sui livelli pre-euro. I mercati finanziari tornano a distinguere il merito di credito, profondamente diverso per i vari Paesi dell'area, dando meno peso al fatto che tutti siano denominati in euro. Perché? Molto semplicemente perché il rischio di default e/o di uscita dall'euro diventa concreto, in particolare per i Paesi più indebitati, come la Grecia, il Portogallo, la Spagna e - ahinoi - anche l'Italia. Il servizio del debito sale, il PIL collassa, il rapporto debito/PIL si spinge a toccare un nuovo record a ridosso del 133%, peggio ancora che ad inizio anni '90 (eravamo allora sul 100-120%).
Le conseguenze della crisi diventano politiche e sociali: in Europa cadono governi e iniziano le tensioni di piazza, dagli indignados al profilerare di movimenti che propongono l'uscita dall'euro, considerato il responsabile dell'aggravarsi della situazione economica, del fallimento delle imprese e del boom della disoccupazione.
Dai Keynesiani alla Krugman e Stiglitz ai monetaristi la "terapia" proposta è sempre la stessa: aumentare la spesa pubblica ed il deficit, stampare moneta per dare liquidità al sistema e deprezzare il cambio, monetizzare il debito pubblico. Insomma, fare quello che è sempre stato fatto, in varie combinazioni, negli ultimi 40-50 anni. Di riforme strutturali vere si parla meno, perché molto più difficili da adottare per la classe politica: recuperare competitività con un processo deflativo che passa dal taglio della spesa pubblica, dalla riduzione del numero dei dipendenti statali, dalla flessibilizzazione del mercato del lavoro, dalla lotta alle burocrazie e alle lobby, dalla riforma della giustizia, insomma dall'imparare finalmente a fare di più e meglio usando meno risorse, evitando sprechi e ruberie. E, auspicabilmente, abbassando l'imposizione fiscale, sempre più vessatoria.
Paradossalmente l'euro ha evitato la solita, facile scorciatoia sempre seguita dai politici: svalutare, inflazionare, rinviare i problemi al futuro. Se, finalmente, in Italia si è iniziato a parlare di spending review - per i risultati concreti siamo ancora in attesa - è solo perché la classe politica non ha alternative: il male va affrontato alla radice, cure sintomatologiche non sono più possibili.
L'euro non è la causa della febbre ma il termometro che la manifesta, e rompere il termometro non ci farà guarire. Krugman definisce l'Euro una "camicia di forza": forse è così, una camicia di forza che ha però il pregio di impedirci atti di auto-lesionismo.
Il tema è molto ampio e meriterebbe ben altri approfondimenti. Solo per inciso ricordiamo che il ritorno alla lira porterebbe ad una svalutazione del cambio di ampiezza marcata - si parla di un 20-30% - il che significherebbe l'esplosione dei debiti denominati in euro - dei privati, delle imprese, delle Banche, dello Stato - che in molti casi non potrebbero più essere onorati. I prezzi dell'energia e delle importazioni andrebbero alle stelle, mentre occorrerebbe del tempo per avere un miglioramento della bilancia commerciale grazie alle ricadute positive sul fronte dell'export. Per non parlare poi della distorsione della struttura dei prezzi relativi, con l'effetto di un vero e proprio terremoto, dalle conseguenze difficilmente valutabili. Se altri Paesi seguissero questa strada, la probabile scomparsa dell'euro farebbe poi certamente piacere agli Usa, che non rischierebbero più di vedere minacciata la propria supremazia valutaria: potere stampare a piacere la propria divisa nazionale, che è anche valuta di riserva a livello mondiale, dà agli Usa la possibilità di deprezzare il cambio scaricando sui partner commerciali parte dei propri squilibri interni.
Falsificare il valore della moneta - come avviene con le politiche monetarie ultra-espansive volte a riflazionare il sistema e deprimere il cambio, o con le vere e proprie svalutazioni come accadrebbe con la fuoriuscita dell'Italia dall'euro - ha un effetto deleterio sul sistema economico, perché il valore della moneta - interno ed esterno - è il minimo comune denominatore in tutte le scelte di consumo, risparmio ed investimento. Se il valore viene manipolato saltano tutti i riferimenti ed i calcoli di convenienza, con conseguenze negative anche sul comportamento morale delle persone a causa della variazione continua dell'orizzonte di riferimento e della vanificazione del risparmio. Un nervo scoperto per i tedeschi, che ancora ricordano lo sfacelo non solo economico ma anche morale dell'iper-inflazione dei tempi della Repubblica di Weimar, nel lontano 1923.
Gli argomenti fin qui forniti difficilmente convinceranno i detrattori dell'euro: spero, tuttavia, che contribuiscano a fare emergere dei dubbi. Per ulteriori approfondimenti rinviamo all'ottimo articolo "In difesa dell’euro: una prospettiva austriaca", di Jesus Huerta de Soto (cfr. www.vonmises.it, del 21.6.2012), dove l'economista austriaco rivendica ai tassi fissi infra-area euro una funzione simile a quella svolta in passato dal sistema monetario "Gold standard": l'impossibilità di manipolare il cambio costringe i politici a dire la verità ai cittadini e ad affrontare i problemi alla radice (sulla tesi di Huerta de Soto, cfr. anche Roberto Giorni, Non basta Keynes per risolvere la crisi, Studi Cattolici gennaio 2014).
Il giudizio positivo sull'Euro in quanto proxy del Gold standard non comporta di per sé un giudizio positivo sull'operato della Bce (che ha perseguito politiche monetarie ultra-espansive - seppur in misura nettamente inferiore rispetto alla Fed e alla Banca del Giappone - contribuendo ad alimentare bolle e distorsioni, in specie nei Paesi periferici dell'area euro), e neppure sulle politiche economiche o sulle scelte legislative degli organismi comunitari o sulla supremazia tedesca. Occorre però distinguere i vari aspetti, per non cadere in un anti-europeismo altrettanto rozzo e demagogico di un certa visione ideologicamente ottimistica dell'Europa, prevalente anche da noi, prima dello scoppio della crisi.
Comunque la si pensi, fuggire dall'euro per adottare nuovamente la lira non significherebbe tornare ai "felici" anni '80, far risalire la produzione industriale e l'occupazione: se la classe politica italiana non avesse avuto la possibilità di indebitarsi a piacere e manipolare il cambio, se l'euro, in altre parole, fosse stato introdotto già a quei tempi, non ci troveremmo ora con l'acqua al collo.
La festa è finita, rifuggiamo una buona volta dai sogni e dalle illusioni: a crisi reali necessitano soluzioni reali, non manipolazioni finanziarie. Una medicina amara, che richiederà anni per produrre risultati. La realtà, anche quella economica e finanziaria, non è mai semplice, o semplicistica, come vorrebbero taluni. Prima di agire occorre capire.